Cronache
Randagismo, Puglia: il triste primato dei "canili lager"
Randagismo, Puglia: il triste primato dei "canili lager". Oltre 27 mln di euro l'anno per mantenimento animali domestici
Triste è sapere che, a livello di dignità umana nei confronti degli animali, la Puglia costituisce il non-esempio del rapporto uomo-animale. Essì, perché il patrimonio paesaggistico che negli ultimi anni ha portato la regione in cima alle classifiche turistiche, ora si ritrova ad essere il “campo profughi” degli animali domestici.
Il caso dei "canili lager". Tra strutture costose, personale inadempiente e silenzio normativo, la Regione Puglia detiene il record di animali randagi. Un sondaggio Lav (Lega anti vivisezione) riportato su Libero conferma quanto suddetto. La Puglia è la regione cui spetta il primato del costo annuo più alto per il mantenimento dei cani nei canili, spendendo più di 27 mln di euro l’anno e registrando la maggior presenza di strutture. Quest’ultime, oltretutto, sono per la maggior parte “canili lager” sia pubblici, che privati, al cui interno presentano condizioni pietose per qualsiasi essere umano animale e non animale. Poi, sapere che ogni mese avvengono decine di sequestri su tutta la regione fa ancora più effetto. Non tutti i cani si salvano. Quelli che riescono, se sono ancor più fortunati, vengono portati al Nord. Una situazione che, non a caso, presenta analogie con lo storico ed enorme divario tra Nord e Sud, quindi al poco interesse fin qui mostrato nell’avere una uniformità culturale e giuridica.
Il "blocco" normativo della Regione Puglia. Particolarmente significativo ed esemplare è il "blocco" a livello normativo in cui si ritrova la Regione Puglia. A dir la verità, più che un blocco sembra essere un pretesto per non agire. Ma effettivamente, come per tutto lo stivale anche il tacco presenta libertà legislativa. Per esempio, in tema di cattura degli animali domestici, secondo la legge della Regione Puglia, i Comuni devono limitarsi alla gestione dei canili al fine della mera «accoglienza» dei cani, mentre al «ricovero» provvedono i soggetti tenuti al recupero dei cani randagi, e cioè i Servizi veterinari delle ASL. A stabilirlo è la Cassazione con sentenza n. 17060 del 28 giugno 2018. Ma questo, purtroppo, è solo una delle tante libertà che, paradossalmente, limitano l'azione del legislatore nazionale.
Un quadro normativo troppo fragile. Risale al 14 agosto 1991 la prima Legge Quadro in materia di tutela degli animali d’affezione e prevenzione del randagismo che ha decretato l’Italia il primo paese al mondo a riconoscere il diritto, la vita e la tutela degli animali, vietandone la loro soppressione se non in casi eccezionali. Già al suo art. 1 denominato “Principi generali” si poteva notare una particolare attenzione, da parte dello Stato, alla tutela e, soprattutto, al rapporto uomo-animale, preannunciando anche un interesse agli effetti riflessi che tale relazione può avere sull’ambiente : “lo Stato promuove la tutela degli animali d'affezione, vieta la crudeltà verso questi animali e il loro abbandono e promuove la convivenza fra uomo e animali, tutelando ambiente e salute pubblica”. Quanto alla competenza che spetta ai vari livelli di governo territoriale, l’art. 3 recitava le materie spettanti alle sole regioni: l'istituzione dell'anagrafe canina locale; la definizione dei criteri di risanamento dei canili; la definizione delle misure di lotta al randagismo dopo aver sentito gli enti protezionisti e le società venatorie; la formazione scolastica (rivolta principalmente agli studenti) e del personale sanitario che si occuperà degli animali d'affezione; il risarcimento degli allevatori a causa dei danni provocati da cani randagi o inselvatichiti. Successivamente, altri provvedimenti hanno imbottito il quadro inizialmente delineato. Tra questi: l’Accordo 6 febbraio 2003 fra Ministro della Salute, Regioni e Provincie autonome nel quale, all’art. 2, si chiariscono “Responsabilità e doveri del detentore”; la legge 20 luglio 2004 n. 189 chiamata “Disposizioni concernenti il divieto di maltrattamento degli animali, nonché di impiego degli stessi in combattimenti clandestini o competizioni non autorizzate”; la legge 201 del 2010 che concerne la ratifica italiana della Convenzione europea per la protezione degli animali da compagnia (Strasburgo, 14 agosto 1991). Tali atti normativi sopracitati costituiscono le linee guida generali per la tutela degli animali. Per tutto il resto, il legislatore lascia libertà di sviluppo e adeguamento interno alle singole Regioni, Provincie e Comuni. Ma visto e considerato l’approccio giuridico utilizzato, da parte delle Regioni, per altre materie di competenza legislativa residuale, viene difficile immaginare una fedele ed unitaria coerenza in materia su tutto il territorio nazionale. In altre parole, i soli Principi Generali elencati non bastano per combattere il maltrattamento degli animali e, soprattutto, il cosiddetto fenomeno del randagismo. Ammesso che tale fenomeno sia ancora considerato di primaria importanza, per rendere coesa l’azione di 7.918 realtà territoriali locali serve qualcosa di più. Non a caso, i dati sin qui raccolti da Lav confermano quanto suddetto. Nel 2017 i cani nei canili risultano poco più di 114 mila, così distribuiti: 15.188 al Nord, 17.336 al Centro e 82.342 al Sud. Il 44% delle strutture che ospitano animali domestici si trovano al Sud, il 19% al Centro e il 37% al Nord. Insomma, numeri che confermano l’attuale stato dispersivo a cui è lasciata la materia in questione e che dovrebbero preoccupare chi sta ai piani più alti e centrali. Legittimare e controllare in modo costante lo stato di benessere degli amici a quattro zampe è ciò che servirebbe. L’unico organo attualmente in potere di dare una svolta è l’Unione Europea, ma ad oggi non ci sono precise regolamentazioni in merito al rapporto uomo-animale-ambiente.