La storia? Non si legge con l'ideologia dei diritti
L'errore di interpretare il passato con giudizi presenti. Lo spiega il Prof. Belardelli
Karl Marx, massimo critico del capitalismo, riconosceva alla borghesia il merito di trascinare «nella civiltà tutte le nazioni, anche le più barbare». E per questo, dovrebbe essere ritenuto un criminale. Lo stesso vale per Giuseppe Mazzini: uomo battagliero riguardo l’indipendenza dei popoli, studiato nelle scuole e celebrato nei libri, e tuttavia convinto che l’Europa fosse «provvidenzialmente chiamata a conquistare il mondo all’incivilimento progressivo». Anche lui, un criminale.
Non è un gioco, ma solo un metodo di intendere la storia. Quello che il candidato francese per le prossime presidenziali Emmanuel Macron («né di destra, né di sinistra»), appena qualche giorno fa, ha mostrato di prediligere. Al termine di un viaggio in Algeria, ha affermato: «Il colonialismo fa parte della storia francese. E' un crimine contro l'umanità, una vera barbarie e fa parte di questo passato che dobbiamo guardare in faccia». Tanto è bastato a Giovanni Belardelli, professore di storia delle dottrine politiche a Perugia, in un articolo sul Corriere della Sera (22 febbraio), per mettere a nudo il paradosso che ne deriva, e prendersela con la «giuridificazione». E cioè? Si tratta – ha scritto Belardelli - «del dilagante anacronismo attraverso il quale si trasferiscono criteri e giudizi di oggi a fatti e personaggi del passato». In questo senso, il colonialismo – a cui nell’Ottocento Marx e Mazzini, per diversi fattori, guardavano con favore – andrebbe giudicato per come lo si concepisce oggi: una pratica illiberale e immorale. E i due, quindi, andrebbero etichettati di conseguenza.
«Giuridificazione», in breve, significa intendere la storia alla luce del diritto attuale, di fatto, decontestualizzando quanto accaduto per rileggerlo secondo categorie (bene o male, giusto o sbagliato) che oggi si danno per scontate. Ma che ieri, però, non avevano la stessa centralità. Un esempio? Thomas Jefferson. Scrisse e firmò, nel 1776, la dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti, il suo volto è scolpito sul monte Rushmore, e però possedeva schiavi in Virginia. Altro che padre fondatore, allora: pure lui un criminale. E Cristoforo Colombo? Un poco di buono: si fosse risparmiato il viaggio, nel 1492, e avesse rinunciato subito all’impresa, non avrebbe sterminato le popolazioni indigene d’America a colpi di influenza. Della questione, che non è solo d’accademia, Belardelli ha parlato con Affari Italiani. «Quello di Macron è un anacronismo – spiega – perché si utilizza un criterio, il crimine contro l’umanità, che è stato ufficialmente definito solo da alcuni decenni, e nello specifico dal Processo di Norimberga dopo la Seconda guerra mondiale. Dovremmo applicarlo, quindi, al Colonialismo? O alla guerra tra Atene e Sparta? Nella democrazia ateniese, per esempio, erano esclusi donne e schiavi, cosa dovremmo dire allora? I fenomeni storici vanno valutati rispetto al loro tempo, un atteggiamento del genere è la negazione della storiografia». Ancora: «Non possiamo mettere le nostre idee nella testa dei personaggi storici. C’erano delle convinzioni prima, giuste o sbagliate che fossero, che non possono essere lette in base alle nostre. Cristoforo Colombo aveva idee positive sugli indigeni, voleva convertirli: di certo non auspicava uno sterminio. Il fatto che sia accaduto non autorizza a colpevolizzarlo».
Come ricorda Belardelli, la colonizzazione europea, che specie tra la seconda metà del XIX secolo e i primissimi anni del XX toccò il suo apice con la spartizione dell’Africa e il consolidamento dei possedimenti in Asia, è stata un fenomeno complesso: e proprio la tentazione della semplificazione in categorie rigide (un crimine contro l’umanità non ha bisogno di essere ulteriormente analizzato: basta giudicarlo negativamente) porterebbe all’errore. «Un altro anacronismo di questo tipo che è entrato nella cultura occidentale, e non per questo è meno sbagliato – continua con Affari Italiani - riguarda la Prima guerra mondiale: si tende a condannare senza cercare di capire. Capire, per esempio, perché tanti giovani studenti, ventenni, per lo più appartenenti alla borghesia italiana, sono partiti volontari – e scalpitavano nel farlo - e poi sono morti. Erano idioti? No. Ma quello che i giovani di oggi troverebbero assurdo, non lo era un secolo fa».
«Giuridificazione», quindi. Che nascerebbe da un appiattimento culturale nei confronti della storia ben marcato soprattutto nel mondo anglosassone. «Lo scorso anno, a Oxford, in un college, sempre sul colonialismo, ci sono state proteste studentesche per la presenza di una statua di Cecil Rhodes (1852-1902) l’esploratore da cui prese il nome la Rhodesia (la nazione africana da cui, oggi, si hanno Zambia e Zimbawe, ndr). Non volevano più la statua. Anche se proprio Rhodes fu uno dei principali finanziatori del college. Quella è stata incapacità, appunto, di storicizzare, di storicizzare un dato di fatto, alla luce dei diritti attuali. E anzi la pretesa di riscrivere il passato».
Bisognerebbe domandarsi, secondo il professore, perché il mondo di oggi, che corre veloce e si muove sul web, abbia trascurato la dimensione storica. Tante sono state le cause, dice. Una è la fine delle ideologie del Novecento. La fine del comunismo, in particolare. «Una delle ultime grandi ideologie basate sulla storia. Il marxismo riteneva di sapere dove andasse la storia: verso l’abolizione del capitalismo, il sole dell’avvenire, il socialismo. E sappiamo poi come è andata. Ciò non toglie che dopo il crollo del muro di Berlino sia venuta meno una certa impostazione nei riguardi del passato. E si sia sviluppato questo generale sguardo moralistico, che sente il bisogno di dividere in buoni e cattivi. In questo, a mio avviso, c’entra una parte della sinistra: rimasta orfana del marxismo e di un certo progressismo della storia in cui il marxismo credeva. Questa è una delle radici dell’ideologia dei diritti». Ideologia che ha finito, inevitabilmente, per estendersi al passato. «Visto che nella stragrande maggioranza della storia non c’è stata uguaglianza giuridica tra uomini e donne, né il suffragio universale, dovremmo dunque considerare così tanti anni come un periodo di orribili dittature?».
Anche le classi dirigenti, le élite (e il caso Macron fa scuola), per Belardelli non hanno fatto abbastanza – e continuano a non farlo – per contrastare la perdita della dimensione storica. «Vedo nei miei studenti atteggiamenti di questo tipo: si tende a confondere, semplificare. La globalizzazione culturale, specie attraverso internet, ha enormemente allargato le possibilità della conoscenza. Con un telefono possiamo vedere e sapere tutto, all’istante. D’altro canto, c’è stato un appiattimento sul presente, a discapito della profondità storica». E il pericolo, per il professore, editorialista del Corriere, c’è. E va riconosciuto. «Siamo prodotti del passato: quello che ci piace, ci appassiona o scandalizza è frutto di quanto già accaduto. Siamo prodotti culturali. La storia è la nostra identità, la consapevolezza di ciò che abbiamo dentro». Ridurla ai minimi termini, o interpretarla come una lunga serie di orrori da allontanare - e ripudiare - significa tradirla. Almeno un po’.