Economia
Banche, pulizie di primavera. La cura passa di nuovo per lo sportello
La Bce è preoccupata: la disoccupazione resiste pervicacemente (-0,1% la variazione su base annua dei prezzi al consumo in media nell’area dell’euro a fine marzo), complice il mantenersi dei prezzi dei prodotti petroliferi nel range di 35-40 dollari al barile, mentre anche l’inflazione “core” continua a salire troppo lentamente (+1% a fine marzo contro +0,8% di fine febbraio, sempre a livello di Eurolandia), con paesi come Francia e Italia che mostrano una debolezza ancora superiore alla media.
Non si tratta solo di una fotografia preoccupante dello stato di incertezza che attanaglia imprese e famiglie europee, nonostante gli sforzi già messi in campo dalla Bce, che col programma di quantitative easing che dal marzo 2015 a fine marzo scorso ha già acquistato sul mercato oltre 1.664 miliardi di bond complessivamente, ma anche di una spada di Damocle sui conti degli istituti creditizi europei, perché sebbene il costo della raccolta sia sceso significativamente e sia destinato a scendere ulteriormente nei prossimi mesi, col lancio di nuove operazioni di rifinanziamento a lungo termine (Tltro) che potrebbero vedere applicati anche tassi negativi, anche sul fronte dei possibili impieghi i tassi sono scesi e dunque il margine di interesse resta sotto pressione. Questo non contribuisce certo a rendere più redditizio il business tradizionale e grava ulteriormente sulle banche di paesi come Italia e Spagna i cui bilanci mostravano già una modesta redditività e un’elevata esposizione ai titoli di stato (cui cui i tassi, appunto, stanno appiattendosi sempre più verso il basso). Il che significa minore contributo dalla gestione delle tesorerie e, proporzionalmente, un peso sempre più gravoso dei crediti di dubbia esigibilità e delle sofferenze rispetto al conto economico.
Per superare l’empasse, che rischia di protrarsi almeno per un altro paio d’anni secondo il capo economista della Bce, Peter Praet, le banche (in particolare ma non solo quelle italiane) devono riuscire a tutti i costi a liberarsi della zavorra rappresentata da crediti ormai “marci”, ma ci sono una serie di problemi . Anzitutto mediamente gli Npl (non performing loans, prestiti di cattiva qualità) vengono pagati tra il 10% e il 20% del loro valore nominale, il che significa che le banche che andassero a cederli sul mercato dovrebbero rinunciare tra l’80% e il 90% del loro valore nominale.
Ma la copertura media di tali crediti in Italia è pari al 46% il che significa che molti istituti dovrebbero procedere a nuove e pesanti svalutazioni e trovare di conseguenza mezzi freschi con cui ricostituire il patrimonio e i coefficienti patrimoniali (che la stessa Bce sta gradualmente alzando per rafforzare il sistema), cosa di questi tempi tutt’altro che facile, come la vicenda tormentata degli aumenti di capitale di Banco Popolare (1 miliardo), Banca popolare vicentina (1,75 miliardi) e Veneto Banca (1 miliardo) testimoniano. Certo, rispetto a pochi mesi fa, tramontata l’illusione di una “bad bank sistemica”, sul mercato stanno iniziando ad affiancarsi nuovi attori interessati a partecipare ai saldi di fine stagione delle banche: così Banca Ifis continua a comprare portafogli di Npl e a veder crescere le proprie quotazioni in borsa, KKR dopo aver avviato una piattaforma con Unicredit e Intesa Sanpaolo sembra intenzionata a trovare ulteriori istituti interessati ad aderire all’iniziativa, il fondo Apollo ha avanzato un’offerta per i crediti in sofferenza di Banca Carige e Fortress sembra guardare con interesse a quelli della stessa Bpvi.
C’è poi l’ampio capitolo della ristrutturazione delle reti e delle attività dei vari gruppi. Avere 300 banche- fotocopia come ora non è più possibile né sensato, ognuno dovrà trovare una propria specifica area di competenza. Intesa Sanpaolo ha già detto di non essere interessata a rilevare Mps, ma di voler guardare a possibili intese a livello europeo nell’ambito delle attività di private banking, Unicredit dopo aver integrato Pioneer Investment con Santander Asset Management negli ultimi mesi ha rafforzato la divisione Corporate & Investment Banking in particolare con un occhio di riguardo per la Spagna, gli Stati Uniti e l’America Latina (oltre che l’Asia). Un po’ tutte le grandi banche italiane stanno poi valutando ulteriori ottimizzazioni delle proprie reti di filiali, anche perché la concorrenza in arrivo dai colossi della Fintech che con le loro app consentono di pagare online o tramite cellulare bypassando il tradizionale canale bancario e/o delle carte di credito è sempre più pressante, così come lo è la concorrenza che i roboadvisor fanno agli ex promotori finanziari (ora “consulenti abilitati all’offerta fuori sede”) ed è illusorio pensare che le banche possano rimanere ancorate a un modello di distribuzione dei propri servizi del secolo scorso ancora per molto.
Pulizia di bilancio, maggiore specializzazione, strutture più “snelle” e vicine alla clientela: l’identikit delle banche che potranno rimanere sul mercato è chiaro, un po’ meno quelli che saranno i tempi e i costi di questa transizione epocale. Per questo è importante che la Bce continui a offrire il suo supporto al sistema creditizio europeo ma, come notano gli analisti di Standard & Poor’s, non vi sono sostituti a riforme strutturali che porteranno alcune delle banche del vecchio continente a ridefinire il proprio business model e ad aumentare la propria efficienza in un mercato che continuerà a crescere in modo modesto ancora per diversi anni e che pertanto non consentirà eccessivi “repricing”.
Luca Spoldi