Economia
Chili, i Lavazza comprano il 25% per 25 mln. Video-on-demand per diversificare
Dopo i Boroli-Drago e i Barilla, anche i Lavazza diversificano rilevando il 25% di Chili, piattaforma italiana di video-on-demand in forte crescita
Di Luca Spoldi
e Andrea Deugeni
Sono ormai arrivati alla quarta generazione e guidano una delle poche multinazionali di successo dal passaporto italiano: i Lavazza sono abituati da anni a competere, vincendo, in un mercato sempre più concorrenziale, quello del caffè (la seconda materia prima al mondo dopo il petrolio, con un giro d’affari globale di 94 miliardi di dollari l’anno), dove per poter recitare il ruolo di polo aggregante occorre arrivare ad un fatturato di almeno 2 miliardi di euro l’anno.
Un traguardo a portata di mano, dopo che il 2016 si è chiuso con 1,9 miliardi di fatturato (e visto che il piano industriale al 2020 parla di un giro d’affari a fine piano di 2,2 miliardi), viste anche le continue acquisizioni (dopo la canadese Kicking Horse, specializzata nel caffè biologico, è toccato all’italiana Nims, attiva nella distribuzione e vendita diretta porta a porta di caffè in capsule e relative macchine).
Ma con una posizione finanziaria positiva, sempre alla fine dello scorso anno, per quasi 690 milioni, c’è evidentemente spazio anche per qualche operazione di diversificazione, sulle orme di altre grandi famiglie italiane come i Boroli-Drago o i Barilla abituate già da anni a reinvestire parte dei proventi delle proprie attività imprenditoriali in altri ambiti attraverso operazioni di private equity.
Diversamente sarebbe difficile comprendere il senso industriale dell’acquisizione di una quota di minoranza di Chili, piattaforma milanese di video on-demand co-fondata nel 2012 assieme a Giorgio Tacchia dall’ex amministratore delegato di Fastweb, Stefano Parisi (che ne fu il presidente fino al 2016, quando si dimise per concorrere alla carica di sindaco di Milano per il Centrodestra, finendo tuttavia battuto dal candidato del Centrosinistra, Giuseppe Sala) e che tra i propri investitori ha da alcuni anni anche major hollywoodiane come Warner Bros, Paramount Pictures (gruppo Viacom) e Sony Pictures Entertainment. Hanno quote in Chili anche Tony Miranz, che ha venduto la società di video-on-demand Vudu alla catena Walmart nel 2010
Secondo il Financial Times (notizia confermata dalla Luigi Lavazza Spa), che per primo ha riferito la notizia, la famiglia Lavazza avrebbe rilevato il 25% di Chili per 25 milioni di euro, il che significa che attualmente la piattaforma viene valutata circa 100 milioni: una valutazione in costante e rapida crescita, visto che nell’agosto dello scorso anno (quando entrarono Warner e Paramount con circa il 7% a testa) la valutazione “pre-money” non superava i 35 milioni, mentre a fine anno (quando entrò Sony rilevando il 5%) si era già portata a circa 60 milioni.
Chili mira del resto a fare concorrenza a iTunes di Apple e si è nel frattempo estesa dall’Italia alla Gran Bretagna, alla Germania, all’Austria e alla Polonia, mentre il giro d’affari è balzato dai 7 milioni del 2016 ai 30 milioni circa con cui dovrebbe chiudersi il 2017 e la base clienti ha ormai raggiunto il milione di utenti (raddoppiati rispetto a fine 2015).
Se è ipotizzabile che Chili possa diventare una interessante leva di marketing per Lavazza, la presenza tra i soci di tanti nomi “blasonati” come anche il direttore di Lvmh, Antonio Belloni, il finanziere Francesco Trapani (ex amministratore delegato di Bulgari) e la famiglia Passera fa somigliare Chili ad un “salotto buono 4.0”.
Per i Lavazza, la cui attività industriale produce già oggi utili superiori agli 80 milioni di euro annui, Chili potrebbe rivelarsi dunque un interessante investimento di private equity, ma soprattutto il modo in cui rinsaldare le buone relazioni con altri protagonisti della finanza e dell’economia milanese ed italiana.
Del resto anche se il 60% del fatturato viene ormai generato dall’estero, l’Italia resta il singolo mercato più importante per il gruppo e Milano, dove Lavazza a settembre ha aperto un nuovo flagship store, una caffetteria gastronomica in piazza San Fedele, pare una tessera fondamentale del piano per rinsaldare il business, quindi perché non unire l’utile al “dilettevole”?