Economia
Coronavirus non ferma il ritmo Amazon. Stop al salario se non si lavora
Dipendenti preoccupati per l'epidemia. Proteste in Italia.Scoppia il caso in Francia. Il ministro dell'Economia parla di pressioni inaccettabili sui lavoratori
Neanche il coronavirus per ora ferma il passo svelto Amazon dei dipendenti (che hanno paura) nei grandi centri logistici del colosso dell'e-commerce di Seattle. Eppure Jeff Bezos, dal 2018 a oggi l’uomo più ricco del pianeta (la sua fortuna vale al momento 131 miliardi di dollari), è certamente un uomo generoso. Solo un mese fa ha annunciato una donazione da 10 miliardi di dollari a favore del nuovo fondo Bezos Earth Fund che finanzierà la ricerca per “combattere l’impatto devastante del cambiamento climatico”, mentre a fine 2018 aveva devoluto 97,5 milioni di dollari a varie organizzazioni che aiutano i senza tetto.
Nonostante questa generosità, però, Bezos è finito in queste ore sotto i riflettori per tutt’altro motivo: Amazon avrebbe infatti esercitato pressioni sui suoi dipendenti in Francia, sempre più preoccupati per l’avanzata della pandemia di coronavirus (che secondo alcuni modelli matematici sta seguendo lo stesso modello visto in Italia, solo con un ritardo di 9 giorni), minacciando di privarli dei salari qualora si rifiutassero di presentarsi al lavoro. E dire che nel Vecchio Continente altri colossi, a cominciare dai big del settore dell'auto e dell'industria in generale, hanno chiuso le proprie fabbriche per sanificare gli ambienti e preservare la salute dei propri lavoratori.
L’utile di Mr Bezos viene prima dei diritti dei suoi lavoratori? Le pressioni sono subito state definite “inaccettabili” dal ministro dell’Economia Bruno Le Maire, che pure ama i libri che Amazon distribuisce (tra le altre cose), tanto da essersi dichiarato pronto a ottenere la riapertura delle librerie nel fine settimana, a patto beninteso che non diventino “un luogo in cui si rimane troppo a lungo”, perché quello dei libri è per Maire “un commercio di prima necessità”.
Intanto, 250-300 dipendenti di Amazon impiegati presso il magazzino e centro di spedizione Amazon di Saran (cittadina appena fuori Orleans, a sud di Parigi) hanno iniziato a protestare questa settimana, radunandosi fuori l’impianto e chiedendone la chiusura. Per ora i manager di Bezos hanno risposto picche, ricordando che il gruppo segue tutte le linee guida sanitarie avendo già dato la priorità ai prodotti essenziali, come prodotti di base per la casa e igiene e forniture mediche, rispetto a quelli non essenziali (come i libri, ma non solo).
Per questo, come hanno riferito fonti citate dall’agenzia Reuters, Amazon non intenderebbe riconoscere il diritto dei lavoratori di astenersi dal lavoro nelle circostanze attuali, dato che applica “rigorosamente” i protocolli sanitari previsti. La vicenda attuale è certamente spinosa: immaginate cosa succederebbe se, anche in Italia, servizi di spedizione come Amazon si bloccassero completamente, interrompendo i rifornimenti di prodotti sanitari, per la casa o alimentari.
Tuttavia non è la prima volta che al gruppo americano capita di dover subire proteste da parte dei lavoratori. Martedì scorso, ad esempio, i 1.200 dipendenti interinali del magazzino Amazon di Passo Corese (in provincia di Rieti) hanno incrociato le braccia in uno sciopero dichiarato dai sindacati Filt-Cgil e Nidil per via dell’insufficiente attenzione che Amazon avrebbe mostrato fino a quel momento riguardo l’incolumità dei propri lavoratori di fronte all’emergenza coronavirus.
Dopo lo sciopero Amazon, hanno fatto sapere fonti sindacali, ha iniziato a modificare il suo modo di fare, scaglionando le pause ogni quarto d’ora per ridurre l’afflusso di personale nelle aree comuni, definendo percorsi per far defluire il personale a fine turno e in mensa e chiudendo il bar esterno (troppo piccolo per rispettare le misure di sicurezza varate dal governo italiano).
Inoltre sarebbero stati riorganizzati i turni di lavoro, sempre per ridurre il personale presente contemporaneamente nel magazzino, mentre state distanziate fino a 3,5 metri le postazioni nel reparto Afe (Amazon Fulfillment Engine), il sistema di smistamento semiautomatico utilizzato da Amazon per elaborare spedizioni con più articoli dove i lavoratori sono solitamente spalla a spalla per massimizzare la produttività. Come dire che alcune soluzioni si possono trovare, volendo.
La pandemia di coronavirus appare del resto destinata a cambiare radicalmente (per ora su base temporanea, poi si vedrà) anche la fruizione dei servizi di distribuzione. A fronte di una domanda che sta esplodendo per prodotti come i materiali sanitari o i disinfettanti (per non parlare delle mascherine filtranti), in rapido esaurimento, Amazon in Italia ha già deciso che fino al 5 aprile (o comunque fino all’eventuale proroga del lockdown) darà la precedenza a tali prodotti e allungherà i tempi di consegna di tutti gli altri, anche per gli abbonati al servizio Prime.
La stessa cosa, è facile immaginarlo, sarà applicata in Francia e in tutti i paesi che seguiranno l’esempio italiano bloccando le attività non essenziali, nel caso Usa compresi. Se poi tutto ciò basterà a placare le polemiche nei confronti del colosso a stelle e strisce, da anni accusato di spremere fino allo sfinimento i propri dipendenti per massimizzare i profitti, è presto per dirlo.