Fondatore e direttore
Angelo Maria Perrino

Intesa-Generali, criticità del merger. Così Messina lancia la banca nel futuro

Intesa Sanpaolo-Generali: i pro e i contro della “madre di tutte le fusioni” per il settore finanziario italiano

Intesa-Generali, criticità del merger. Così Messina lancia la banca nel futuro


Se è poi vero che Intesa Sanpaolo potrebbe mirare soprattutto alle attività di investimento del gruppo triestino per rafforzare la propria filiera del risparmio gestito dalle fabbriche prodotto alle reti distributive, dismettendo gli asset internazionali di Generali a potenziali acquirenti quali Axa, Allianz e Zurich, non si può non osservare come un simile gestore si ritroverebbe in portafoglio oltre 140 miliardi di euro di titoli di stato italiani, raddoppiando sostanzialmente di taglia.

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Questa per la verità potrebbe anche essere una delle motivazioni che spingerebbe Intesa Sanpaolo a recitare fino in fondo il suo ruolo di "banca di sistema" così da assicurarsi che resti in mani italiane una fetta cospicua (a quel punto superiore al 7%) del debito pubblico italiano, evitando che, nel caso di un intervento finora negato ma ritenuto più che probabile di Axa, a salire di peso sia proprio la Francia (che dopo la conquista di Pioneer Asset Management da parte di Amundi ha già visto salire a quota 100 miliardi il totale dei titoli di stato italiani in portafoglio e che salirebbe coi 70 miliardi in mano a Generali oltre i 170 miliardi, circa l'8,5% del totale del debito).

Intesa Sanpaolo potrebbe comunque lanciarsi all'assalto di Generali se non altro perché, a differenza che nel caso di Mediobanca (socia al 13,46% di Trieste ma intenzionata da tempo a calare entro il 10%) il "compromesso danese", che per Piazzetta Cuccia scade nel 2019, per il gruppo guidato da Carlo Messina, considerato "conglomerato finanziario" non dovrebbe avere una scadenza temporale. Questo significa che mentre per Mediobanca mantenere stabile la quota comporterebbe, ceteris paribus, il calo da oltre il 12% a circa l'11% del Cet1 ratio, e un calo del Roi (indice Return on investment) della partecipazione nel leone di Trieste dal 17% al 12%, per Intesa Sanpaolo il Cet1 potrebbe addirittura salire, secondo Barclays, dal 13% attuale al 15% (attorno al 14,3% secondo i più prudenti calcoli di Credit Suisse).

Siccome il "compromesso danese", che prevede che una partecipazione azionaria che una banca acquisisce in un gruppo finanziario (banca o assicurazione che sia) possa essere valutata al 370% del proprio valore nel momento in cui viene sommata al capitale regolamentare dell'acquirente e dedotto alla pari al proprio capitale sociale (dunque con un beneficio rispetto alla normativa base che prevede una valutazione alla pari in entrambi i casi), non è mai stato pensato per favorire scalate ostili, la Bce, cui in ultima analisi spetta se autorizzare o meno il trattamento contabile "speciale", potrebbe anche decidere che in questo caso il compromesso non è applicabile, cosa che comporterebbe una riduzione del Cet1 di Intesa Sanpaolo post acquisizione all'11,2%.

La sensazione è che a fare la differenza sarà la valutazione che Intesa Sanpaolo offrirà ai soci di Generali. Alle quotazioni attuali occorrono circa 8,6 titoli Intesa Sanpaolo per l'equivalente di un'azione Generali e per Credit Suisse, già a questi livelli perché la fusione possa far crescere gli utili per azione, servirebbero 900 milioni di euro di sinergie post imposte, ossia ben oltre il miliardo ante imposte. Se poi Intesa Sanpaolo valutasse Generali non meno di 18 euro (cifra importante perché in molti casi corrispondente o di poco superiore all'attuale valorizzazione dei titoli Generali nel portafoglio di soci storici come Del Vecchio, Caltagirone e De Agostini), Messina dovrebbe offrire circa 8,2 azioni Intesa Sanpaolo per ogni azione Generali e le sinergie da far emergere perché l'operazione si riveli profittevole salirebbero ancora. 

(Segue...)


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