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Economia
Ima acquisisce l'82,5% di TMC Spa. Tutto bene per Vacchi? Qualche neo c'è...
Foto La Presse

“Il gruppo Ima ha sottoscritto un accordo con Matteo Gentili ed alcuni soci di minoranza relativo all’acquisto dell’82,5% delle azioni di società TMC Spa, che produce e commercializza macchine automatiche per il confezionamento e la gestione di prodotti Tissue e Personal Care, relativi servizi di assistenza post vendita”. Così oggi recita il Sole24Ore, per Ima, dopo l’aumento della quota all’80% di Petroncini Impianti è la seconda operazione/acquisizione messa a punto dal gruppo nel giro di pochi giorni. Promesse mantenute quelle di Vacchi, che il 2 Ottobre del 2017, il giorno della quotazioni in borsa del gioiello del gruppo, la Gima TT, aveva dichiarato “faremo nuove acquisizioni, anche se non saranno aziende enormi”. E dunque iniziata l’operazione “risarcimento” verso i piccoli azionisti?

Partiamo dal principio, cos’è Ima?

Industria Macchine Automatiche, in arte I.M.A., azienda fondata nel 1961 da Andrea Romagnoli a Ozzano dell’Emilia.

Nel 1963 la famiglia Vacchi acquisisce la maggioranza del gruppo e comincia un’avventura che arriva fino ai giorni nostri.

IMA è conosciuta in Italia e al mondo come l’azienda produttrice di macchine automatiche per il confezionamento per il tè da filtro, settore in cui è leader nel mondo, ma non è solo questo, Ima è tra le principali aziende internazionali specializzate nel processo e nel confezionamento di prodotti farmaceutici, alimentari, cosmetici, tabacco e caffè.

Un’azienda poco conosciuta al grande pubblico in Italia, ma ben conosciuta nel mondo, un gruppo internazionale, un’espansione iniziata già negli anni ’80, ancor prima della quotazione in borsa avvenuta nel 1995 e successivamente nel 2001 il titolo viene premiato con l’ingresso nel segmento STAR, oggi divenuto un marchio DOC per le aziende italiane, la miglior vetrina a Piazza Affari.

Ima, una delle multinazionali tascabili italiane, presente in tutto il mondo, un’azienda di prestigio per il nostro paese, 5.500 dipendenti di cui 2.600 all’estero, che coprono 41 stabilimenti sparsi tra l’Italia e il mondo. Non male vero?

Un gruppo che secondo l’ultimo bilancio (2017), registra ricavi per 1,44 miliardi di euro (+10% rispetto al 2016) di cui l’88% deriva dalle esportazione, segno che l’Euro non è un freno per le nostre migliori imprese, un Mol a 220 milioni (+19% sul 2016) con una marginalità salita dal 14,1% al 15,3% e un utile a 85,59 milioni di euro, unico neo (artificiale) del bilancio, dovuto solo al fatto che l’utile dell’anno precedente (93,54) beneficiava di proventi finanziari straordinari.

Tutto questo cosa comporta? Un utile per azione di 2,18 euro, che per i singoli azionisti si traduce in una distribuzione di dividendo, in calendario il 21 maggio, pari a 1,70 euro per azione, in aumento rispetto agli 1,60 dell’anno precedente.

E il 21018 si presenta sotto buoni auspici, con una crescita addirittura superiore.

Tutto bene dunque?

Non proprio, perché tra le righe, se proprio vogliamo essere pignoli, si può notare un neo, questa volta non artificiale, più che di mera contabilità, di comportamento e di comunicazione aziendale.

Tutto procede per il meglio, fino alla fatidica data del 2 Ottobre del 2017, quando viene collocato in borsa il 30% di Gima TT, ovvero uno dei principali gioielli del gruppo IMA.

E cosa c’è di così scandaloso?

Di particolarmente scandaloso, nulla, quello che però si nota è che il collocamento di Gima TT denota una mancanza di tatto, (possiamo definirla così?) verso i piccoli azionisti o i cassettisti della capogruppo IMA.

In breve la cronaca: l’operazione GIMA TT viene riservato esclusivamente a investitori qualificati, un 30% che con l’aggiunta dell’integrale esercizio della greenshoe aumenta a 40%, un collocamento che vede il tutto esaurito, con una domanda che supera 8 volte l’offerta, un’operazione da 372 milioni (senza greenshoe) e che nel primo giorno di contrattazione in borsa vede la matricola fare un balzo del 22%. Dai 12,5 euro del collocamento ai 15,30 euro nel giorno del debutto.

Risultato?

Nelle casse e nelle tasche di Alberto Vacchi, della società Ima e dei grandi investitori che hanno partecipato all’operazione, va una corposa plusvalenza, mentre ai piccoli azionisti della capogruppo, non va nulla, se non una riduzione di potenziale della loro partecipata.

GIMA TT è un bolide che si occupa di macchinari per impacchettare le sigarette, è una società che ha un fatturato superiore ai 145 milioni, è che non avendo capitale investito è capace di trasformare gran parte del margine operativo in utile operativo: 145 milioni di fatturato, diventano 40 milioni di profitti.

Una parte di questa società ora non fa più capo direttamente ad Ima ma è quotata in borsa e sta facendo la felicità di nuovi azionisti.

Questo cosa vuol dire? Provando a fare un esempio semplice è come se alla vostra Ferrari, sempre bella, luminosa e affidabile, avessero tolto qualche cilindro di potenza.

O forse, ancor meglio, è come se il Barcellona calcio, società a capitale diffuso, avesse deciso di vendere una quota di Messi senza aver dato conto agli azionisti, senza aver reinvestito il guadagno e senza aver distribuito il dividendo.

Niente di irregolare, sia ben inteso, semplicemente, come detto sopra, forse un’operazione con una mancanza di tatto o di generosità.

E’ vero, IMA negli ultimi anni è stata capace di omaggiare i suoi azionisti con grandi regali: una cedola succosa staccata ad ogni esercizio, e una rivalutazione del titolo che negli ultimi 10 anni è passata da 7 euro a oltre 80 euro di oggi, quantificabile in un capital gain potenziale di oltre il 1.000%.

Si poteva fare di più?

Forse è stato l’atteggiamento di Marchionne, manager inviso alla gran parte del proletariato, un personaggio che solo a nominarlo agli operai di Mirafiori e ai sindacati della Fiom fa dirottare ettolitri di sangue al cervello, ma che per azionisti piccoli e grandi, indistintamente, può essere ribattezzato come il Babbo Natale della Borsa.

Pochi esempi: la divisione di Fiat tra Auto e Industrial avviene con l’omaggio di entrambe le nuove azioni ai vecchi azionisti, in pratica gli azionisti Fiat si trovano ad avere in portafoglio azioni Fiat Auto e Fiat Industrial con una plusvalenza immediata incorporata; quotazioni Ferrari, spin-off di FCA che porta un omaggio agli azionisti Fiat delle azioni del cavallino rampante; così con l’operazione RCS e non ho difficoltà ad immaginare che la stessa generosità verrà applicata con Magneti Marelli.

Forse a causa di Marchionne, che come l’ha definito Riccardo Ruggeri “il più grande deal maker” dell’automobile, ci siamo abituati a troppi vizi, ma è anche vero che un maggior coinvolgimento del piccolo azionista è un bene anche per l’intero sistema della Borsa, aumenta la fiducia in un luogo che tutt’oggi viene considerato come privilegio per le élite. Marchionne purtroppo ormai è vicino alla scadenza del mandato, riuscirà a diventare Vacchi un degno erede riscattandosi da questo “inciampo”? E’ solo un umile suggerimento.

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imaalberto vacchi





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