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Economia

 

La vittoria di Trump negli Usa ha lasciato i media americani e quelli europei sotto choc e non si sono ancora ripresi del tutto, salvo l’ammirevole ripensamento del New York Times.
Infatti, scorrendo i principali quotidiani, siamo ancora a livello della presa in giro continuata, con vignette di ciuffi biondi e similari spacciata naturalmente per critica e non semplice acidità per non condividere il giudizio popolare senza capire che proprio questo atteggiamento elitario ha provocato la vittoria di Trump.
Oggi, ad esempio, sul Corriere della Sera, compare un editoriale dell’economista Lucrezia Reichlin (figlia di Alfredo, “politico e partigiano comunista” e di Luciana Castellina, fondatrice de “Il Manifesto”) solitamente attenta e preparata che però questa volta non può fare a meno di sottrarsi al faro potente dell’ideologia, forse familiare.
L’editoriale verte sulla politica economica che il nuovo presidente Usa svolgerà; leggendo il suo programma che prevede un trilione di dollari in investimenti pubblici, la prima cosa che viene in mente anche ad uno scolaretto è che si stia parlando di politiche keynesiane, cioè politiche pubbliche in cui è previsto un forte intervento dello Stato sulle infrastrutture: autostrade, strade, ponti, ferrovie, porti il tutto al fine di rimettere in moto la macchina (ferma o quasi) dell’economia e del lavoro.
Keynes è considerato uno dei beniamini del pantheon di sinistra (anche se non tutti la pensano così e da anni un ripensamento è in atto) ma le sue politiche furono adottate da molti insospettabili di simpatie comuniste, se è vero che lo stesso regime nazista si affidò, nella prima fase, ad un ministro “keynesiano” Hjalmar Schacht che fu anche Presidente della Bundesbank e che mise in atto un superpiano di sviluppo infrastrutturale (tra cui l’eredità è ancora ben visibile in Germania) per contrastare la Grande Depressione del 1929 a cui sempre più assomiglia -nonostante la Grande Negazione Mondiale- la nostra del 2008.
Tornando ai giorni nostri ci si chiede quale sarà la politica economica di Trump.
Il tycoon americano è stato molto chiaro: sviluppo infrastrutturale per rimettere in moto la macchina dell’economia americana e creare milioni di posti di lavoro.
La Reichlin nell’ editoriale odierno invece cerca di proporre una visione puramente “reaganiana” di Trump facendola naturalmente seguire da note di pubblico ludibrio (Reagan e la Thatcher producono ancora riflessi patellari incontenibili in certi ambienti intellettuali) dimenticando che la cosiddetta “reaganomics” ha prodotto effetti stabili e duraturi sulla crescita non solo degli Usa, ma anche dell’Europa.
Trump potrebbe perseguire entrambi e cioè una politica infrastrutturale con forte partecipazione dei privati, un sapiente miscuglio di Keynes e Reagan, come del resto fanno, velatamente, un po’ tutti.
Anche Renzi ha tentato -finora senza molto successo- di fare qualcosa del genere (e la reazione scomposta della Cgil lo dimostra).
La Reichlin annacqua poi il suo pensiero con una cortina fumogena di tecnicismi che verte sul fatto che il deficit pubblico generato dalle politiche infrastrutturali -cioè la spesa pubblica- sarà alimentato dai crediti d’imposta e non dalle tasse e che quindi saranno favoriti solo i progetti in essere.
Tutto da dimostrare.
E poi è meglio che lo Stato si faccia “prestare” i soldi dai privati che opprimerli con tasse insostenibili.
Ma le tasse piacciono -e pure molto- ad una vecchia sinistra ideologizzata di stampo sovietico che è stata smentita dalla storia.
Purtroppo bisogna constatare che anche una valente economista come la Reichlin si è fatta condizionare dall’elemento ideologico “familiare” ed ha proposto una visione negativa e ristretta piena di paure sul futuro.

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