Sharing Economy: 9 milioni di italiani sherano, è boom dell'economia condivisa
Sharing Economy, tutti i dati e le tendenze in Italia e nel mondo nella ricerca di Kantar TNS
Circa 9 milioni di persone in Italia sherano abitualmente. Condividono cioè servizi con altre persone quasi sempre attraverso il web, scambiando, condividendo, affittando o anche vendendo direttamente prodotti, beni, competenze che ciascuno possiede.
Ma la cosiddetta “Economia della condivisione”, fenomeno dirompente nel tessuto economico mondiale, sta cambiando pelle. Continua a crescere… lentamente, ma inesorabilmente. Ma come si evolve? Se ne è parlato oggi, in un momento di grande attualità, a Sharitaly, l’evento leader in Italia dal 2013 nel mondo dell’economia della collaborazione. Federico Capeci, Chief Digital Officer & CEO Italia, KANTAR TNS, ha evidenziato come il processo di crescita abbia in qualche modo contaminato il fenomeno stesso, trasformandolo. Lo ha fatto, commentando alcuni dati di un recente studio esclusivo sulla Sharing Economy*, effettuato da KANTAR TNS in collaborazione con Lightspeed Research nei 5 principali Paesi Europei, integrati con alcuni insight di Eurobarometro**, lo studio che TNS effettua per la Commissione Europea, ormai da parecchi anni.
“La Sharing Economy cresce, si, – ha commentato Federico Capeci - ma siamo ormai giunti al capolinea della definizione originaria quella che premiava la spinta collaborativa tra gli individui a scambiarsi beni e servizi dal basso. Dobbiamo infatti approcciare le considerazioni sociali ed economiche in modo più allargato o almeno riconoscerne le differenti componenti fondative.”Federico capeci - CDO & CEO Italy, KANTAR TNS
Una crescita decisamente più lenta, quasi di assestamento (le persone che hanno provato servizi collaborativi, descritti come servizi di condivisione di beni e servizi tra individui, sono passate dal 25% dell’anno scorso al 27% di quest’anno, tendenzialmente flat dopo la crescita iniziale dal 13% del 2013 al 22% del 2014). D’altro canto la dimensione dell’uso di servizi specifici di sharing (non solo quelli definibili in modo ristretto “sharing economy”, quindi da Uber a Blabla Car, da AirBnB al social street) è ben più alta ed in crescita (dal 39% dell’anno scorso al 53% di quest’anno)
“Una diversa prospettiva – ha continuato Capeci - secondo il punto di vista da cui si guarda: cresce la penetrazione dei servizi di uso condiviso, non cresce, invece, l’economia della condivisione della proprietà individuale. Indubbiamente, l’ingresso di brand multinazionali, da Uber a Airbnb ed Eni, se da un lato ha generato una sostanza economica non banale e nuova per modello di business, dall’altro lato, però, sta rischiando di annacquare il concetto originario della Sharing Economy, tradizionalmente fondato su tre motivazioni di base: il desiderio di condivisione di esperienza, un certo senso etico e di anti-consumismo, l’imprenditorialità. Oggi infatti, il principale motivo riportato dagli utenti dei servizi di sharing risiede nella comodità e nel risparmio economico, mentre gli aspetti su citati assumono rilevanza secondaria e relativa, presenti solo in limitate situazioni di scambio”.
Servizi attraenti dunque, per un 53% degli Italiani online, apprezzati dal cittadino più per il servizio, l’utilità, (38% in Italia), il costo più abbordabile (29%) che per il concetto del baratto o della condivisione anticonsumistica.
Una situazione ben diversa da quella dei nostri vicini d’oltralpe: i Francesi dimostrano una maggior coscienza collaborativa (un 36% degli intervistati associa la propria attività al social sharing e un 44% ne dichiara un utilizzo effettivo). Inoltre, la loro partecipazione “all’offerta” quasi “uno a due”, fa la differenza: attestando un concetto di vera sharing economy, mentre in Italia per uno che offre, circa 3 usano.
Quali i settori maggiormente impattati dello sviluppo di questi nuovi modelli di business? Sicuramente l’industria dell’entertainment, la mobilità e l’accoglienza, ma fundraising e social lending si stanno affacciando sulla scena.
Ma se parliamo di frizioni e barriere… ecco comparire all’orizzonte (ancora) una sorta di mancanza di fiducia. In tutti i Paesi, è la prima motivazione: in Italia, più di un cittadino su 3 evidenzia mancanza di chiarezza in termini di responsabilità, sensazione ancor più evidente per Spagnoli e Tedeschi (rispettivamente 48% e 46% degli intervistati). C’è poi una sorta di timore per una eventuale delusione di aspettative rispetto al servizio fruito nella realtà: temi che la comunicazione dei player della Sharing Economy può facilmente dissipare con iniziative mirate e trasparenti e attivando servizi di feedback da parte degli utenti..
“Il rischio più evidente però – ha detto Capeci - sembra quello di banalizzare il vero senso sociale di questo nuovo paradigma economico: se viene percepito dagli utenti come “semplice” servizio alternativo a quelli più canonici, tenderà a non sfruttare appieno le potenzialità dei nuovi ed emergenti trend sociali e di consumo”.
E per il futuro? Quali opportunità? “Mi piace pensare – ha chiuso Capeci – di intravedere un più concreto spiraglio per un’adesione più allargata a questo nuovo modello di business, contaminato da un portato di sviluppo sostenibile più responsabile del mondo imprenditoriale. Se le aziende di beni e di servizi sapranno interpretare al meglio la trasformazione dei propri modelli di business, potranno integrare questi nuovi trend di condivisione, facendoli propri e magari valorizzandoli come elemento distintivo valorizzante per il proprio brand. Come? Decidendo, per esempio, cosa condividere e dare in uso ai propri consumatori: un’expertise specifica, un impianto produttivo, un packaging, una competenza di comunicazione? Gli esempi possono essere migliaia, ma l’idea di base rimane la stessa: e se l’impresa, come i cittadini, iniziasse a condividere i propri beni e asset industriali con i propri consumatori?