Economia
UniCredit, Generali e banche medie: su chi si abbatte lo tsunami Intesa-Ubi
Oltre che su BancoBpm e Mps, la mossa di Messina potrebbe comportare contraccolpi anche verso Unicredit, PopSondrio, Creval, Credem e persino su Generali
La mossa di Carlo Messina viene salutata con favore dal mercato, ma il nuovo giro di “risiko” bancario messo in moto dall’offerta di Intesa Sanpaolo su Ubi Banca scompagina le carte su più di un tavolo. A partire da quello del Tesoro, che pareva puntare ad un consolidamento limitato agli istituti di medio o piccole dimensioni che facilitasse la nascita di un “terzo polo del Nord” da contrapporre proprio a Intesa Sanpaolo e a Unicredit, mediante un matrimonio tra Banco Bpm e Ubi Banca, che avrebbe eventualmente potuto estendersi a Bper Banca, per poi fare rotta su Mps (dal cui capitale Via XX Settembre, azionista al 68%, dovrà uscire entro fine 2021).
Sulla carta una “integrazione ideale” che avrebbe raggruppato banche operanti nei territori più floridi del paese, in particolare Lombardia, Toscana ed Emilia Romagna, consentendo di consolidare impieghi netti “in bonis” per circa 230 miliardi di euro, dando vita a un gruppo da circa 9,5 miliardi di euro di capitalizzazione di mercato. Piccolo dettaglio, fatto notare ancora ieri da Victor Massiah, numero uno di Ubi Banca: non tutte le fusioni funzionano e per riuscire una condizione è avere assoluta chiarezza di governance, sia a livello di azionariato sia di management.
Cosa che Messina con un’operazione che Gian Maria Gros-Pietro (presidente di Intesa Sanpaolo) non ha esitato a definire “geniale”, offre in modo cristallino, non potendovi essere dubbi su chi avrà in mano le leve operative sia tra gli azionisti sia tra i manager. Le fondazioni azioniste di Intesa Sanpaolo si diluiranno infatti molto marginalmente, passando dal 14,8% a, 13,1% del capitale del nuovo gruppo, i soci di controllo di Ubi Banca riuniti nel Car, oggi al 18%, si ridurranno a poco più del 2%.
Mentre lo stesso Messina ha voluto “rassicurare” l’ex vicedirettore generale di Banca Intesa (indicato tra i papabili come successore di Federico Ghizzoni prima dell’arrivo di Jean-Pierre Mustier in Unicredit) e la sua squadra, autori di “un lavoro eccellente nel creare una banca solida e ben gestita”, offrendo loro la possibilità di integrare il vertice aziendale di Ubi Banca nelle prime linee di management di Intesa Sanpaolo in posizioni “adeguate” e con “possibilità di crescita professionale”. Se a Brescia e dintorni saranno in molti a dover valutare attentamente il da farsi, in casa UniCredit, fanno notare gli osservatori delle dinamiche del mercato bancario, l’atmosfera rischia di farsi gelida.
Dopo aver a lungo “flirtato” con l’idea di crescere in Europa, solo per doversi rassegnare all’evidenza riguardo la difficoltà di trovare un accordo con banche francesi o tedesche che potesse soddisfare tutte le parti e creare valore per gli azionisti, Mustier rischia di vedersi ora franare il terreno (anzi la quota di mercato) sotto i piedi proprio nel suo mercato domestico e potrebbe dunque passare al contrattacco per non restare staccato dalla “nuova” Intesa Sanpaolo (che arriverà ad avere circa 500 miliardi di crediti “in bonis” e una capitalizzazione di 44 miliardi).
Considerazioni simili, e l'attivismo odierno degli investitori a Piazza Affari lo dimostra, valgono per Giuseppe Castagna: Banco Bpm (oltre 91 miliardi di crediti netti “in bonis”, 3,5 miliardi di capitalizzazione) se non vuol rimanere sempre più staccato dai primi due gruppi italiani deve ora trovare una o più “prede”. Quali? Con Ubi Banca tolta dal mercato e Bper Banca non più interessata, resterebbero oltre a Mps (quasi 79 miliardi di impieghi netti “in bonis”, 2 miliardi di capitalizzazione) due istituti lombardi come Banca popolare Sondrio (1,1 miliardo di capitalizzazione, 37,5 miliardi circa di impieghi netti “in bonis”) e Credito Valtellinese (625 milioni di capitalizzazione, un’altra trentina di miliardi di impieghi netti “in bonis”).
Messi assieme si arriverebbe a creare un “supergruppo lombardo” da oltre 150 miliardi di impieghi netti “in bonis” e 5,2 miliardi di capitalizzazione, che potrebbe più agevolmente provare a rilevare il controllo dell’istituto senese, dove Marco Morelli potrebbe lasciare la poltrona di Ceo dopo l’assemblea del 6 aprile chiamata a rinnovare il board della banca per essere sostituito, secondo le ultime voci, da Marina Natale, ex top manager Unicredit e attuale numero uno di Amco (l’ex bad bank Sga chiamata a rilevare oltre 9,5 miliardi di Npe che Siena cederà una volta raggiunto l’accordo con la Commissione Ue). Sempre che Morelli non decida di restare, in cambio di un chiaro mandato finalizzato alla ri-privatizzazione.
Resterebbe da capire, a quel punto, il destino del Credito Emiliano (1,73 miliardi di capitalizzazione, 25,6 miliardi di attivi netti “in bonis”), il cui direttore generale, Nazzareno Gregori, si è qualche giorno fa detto “disponibili a dialogare in una logica di consolidamento”, ma che potrebbe ora diventare più una preda (il caso Ubi, istituto passato in solo 24 ore da cacciatore a bottino, insegna) che un polo aggregante, tanto più che Gregori ha già messo le mani aventi spiegando di non aver interesse a partecipare a salvataggi (in particolare a quello di Banca popolare Bari).
Ultimo ma non meno rilevante tavolo “sparigliato” da Messina è quello assicurativo. Andato a vuoto il tentativo di fidanzamento con le Generali, con cui Intesa Sanpaolo dovette rinunciare a lanciare qualsiasi offerta di scambio, Messina, che nei mesi scorsi si è già rafforzato nel settore delle assicurazioni sanitarie con l’acquisizione di Rbm Assicurazione Salute, salendo così al primo posto del settore in Italia (proprio davanti al Leone), finirà ora col favorire la concorrente Unipol. Alla Compagnia di Carlo Cimbri cui andranno una o più compagnie assicurative attualmente partecipate da Ubi Banca, ossia BancAssurance Popolari, Lombarda Vita e Aviva Vita, finora valutate attorno al miliardo di euro.
Se è vero come ha spiegato il banchiere di Intesa che "sul risiko bancario italiano fino ad ora sono state fatte molte chiacchiere ma pochi fatti, perché nessuno degli amministratori delegati voleva suicidarsi perdendo il posto con un merger" ora la paura di finire preda, "perché chi compra finisce sempre per comandare e non esistono merger of equals", potrebbe costringere i banchieri nazionali a darsi una mossa. La Borsa lo ha capito e ha iniziato a prendere posizione. Tant'è che proprio il vento del risiko ha portato Piazza Affari a svettare fra i listini mondiali depressi dalle conseguenze negative del coronavirus sul raggiungimento dei target da parte di Apple.