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Delimitare la nozione di “hate speech”

Il primo problema individuato dalla commissione è la mancanza di una definizione giuridica univoca, sia in Italia che in Ue, del fenomeno dell’hate speech. Il principale ostacolo, quando si cerca di definire i discorsi d’odio, è che la libertà di opinione è un diritto fondamentale all’interno di una democrazia.

A differenza del costituzionalismo liberale statunitense però il costituzionalismo europeo riconosce la categoria dell’abuso di diritto. In diverse istanze infatti l’uguaglianza, la dignità, l’onore e la reputazione sono stati affermati come diritti che di fatto possono limitare la libertà di espressione di un altro.

Come illustra il documento conclusivo, l’hate speech va inteso come più di una semplice contrapposizione tra due diritti – il diritto di libera espressione da un lato e quello alla dignità dall’altro. Esso può essere più efficacemente compreso come uno stesso diritto, esercitato da due soggetti, la cui espressione in uno può limitare l’altro. Difatti l’odio calpesta la libertà di espressione della vittima, sino anche a impedirle di denunciare il reato subito, per vergogna, timore, paura di non incontrare supporto – come dimostrato anche dal fenomeno dell’under-reporting, ovvero il fatto che i reati denunciati sono di entità nettamente inferiore rispetto a quelli compiuti.

L’odio online e le sue peculiarità

Il documento si sofferma anche sulle modalità di diffusione dell’odio, e in particolare su quelle digitali – anche se è importante sottolineare che l’hate speech è caratteristico anche dei media tradizionali. Online, l’odio rimane attivo più a lungo, si presenta in diversi formati ed è facilitato dalla generale percezione di anonimato e impunità. Inoltre è transnazionale, il che rende più complesso individuare i meccanismi legali idonei per combatterlo. Gli algoritmi poi distorcono ulteriormente le notizie, creando dei veri e propri filtri cognitivi. Oltre al fatto che la comunicazione digitale è più veloce, e che genera effetti a catena.

A questo si aggiunge il fatto che le piattaforme esercitano ormai un enorme potere che non è solo sociale, ma anche economico, politico e tecnologico. Sono capaci di orientare il dibattito pubblico, come fossero un organo politico. Al momento, lo strumento principale in questo senso è il codice di condotta dell’Ue, del 2016. A livello nazionale, l’Agcom ha introdotto un analogo regolamento su segnalazione e moderazione di contenuti d’odio.

Ma è necessario un ulteriore intervento normativo specifico. La commissione straordinaria propone in questo senso l’introduzione di un regolamento sui servizi digitali (Dsa) che possa in futuro costituire una base normativa comune per tutti i paesi membri, oltre che, per l’Italia, di un osservatorio nazionale permanente sui discorsi d’odio e i crimini d’odio. Sostenendo inoltre la necessità di promuovere una regolamentazione internazionale sull’anonimato.

Come raccogliere dati e monitorare?

Come evidenzia la commissione, i discorsi d’odio costituiscono una sfida per la statistica ufficiale. In primis proprio per via della difficoltà di definizione e per la complessità del fenomeno. In questo senso l’indagine conoscitiva ha portato alla conclusione che è necessario definire e implementare una metodologia comune e un coordinamento a livello europeo per la raccolta dati e il monitoraggio.

Da un punto di vista giuridico, ci sono i dati sui procedimenti penali sui crimini d’odio. Tuttavia, siccome al momento non è riconosciuta come aggravante la discriminazione basata sul sesso, sul genere, sull’identità e sull’orientamento, i dati di questo genere sono disponibili ma solo per le vittime di crimini di matrice razzista o xenofoba.



 
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