Spettacoli

Rula Jebreal: alla protagonista della prima serata di Sanremo solo 8.000 euro

L'emozionante testo, scritto con Selvaggia Lucarelli, dell'intervento in ricordo della madre e contro la violenza

 

 

 

di Lorenzo Zacchetti

Rula Jebral è stata senza dubbio la grande vincitrice della prima serata di Sanremo 2020. Dopo le polemiche
che hanno preceduto il suo inserimento nella rosa delle ospiti femminili sul palco dell’Ariston, oggi tutti i
media e i social network parlano del suo commovente monologo (scritto insieme a Selvaggia Lucarelli) sulla violenza nei confronti delle donne e in ricordo di sua madre.


Tra le ragioni di discussione sul suo ingaggio c’era anche l’ammontare del compenso, che secondo alcune
fonti sarebbe ammontato addirittura a 25.000 euro. Invece, come rivelato da TPI.it, Rula Jebreal riceverà solo 8.000 euro per la sua partecipazione a Sanremo, dei quali la metà – come lei stessa ha annunciato – sarà devoluta a Nadia Murad, vittima di violenza sessuale da parte dell’Isis.

Per essere al Festival, inoltre, Rula Jebral ha preso un periodo di ferie non retribuito, al termine del quale
tornerà ad insegnare diritti umani all’Università di Miami.

Visto il livello del suo contributo e l’attenzione che ha saputo catalizzare, sarebbe stato davvero un delitto
cedere alle polemiche “politiche” ed escluderla dal Festival. Per fortuna, non è andata così.

Il testo del monologo di Rula Jebreal:


-Lei aveva la biancheria intima quella sera?
-Si ricorda di aver cercato su internet il nome di un anticoncezionale quella mattina?
-Lei trova sexy gli uomini che indossano i jeans?
-Se le donne non vogliono essere sfruttare devono smetterla di vestirsi da poco di buono.
Queste sono solo alcune delle domande poste in un’aula di tribunale a due ragazze che in Italia, non molto
tempo fa, hanno denunciato una violenza sessuale. Domande insinuanti, melliflue, che sottintendono una
verità amara, crudele: noi donne non siamo mai innocenti. Non lo siamo perché abbiamo denunciato troppo
tardi, perché abbiamo denunciato troppo presto, perché siamo tropo belle o troppo brutto perché eravamo
troppo disinibite e ce la siamo voluta.


“Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie
Dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via
Dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo.
Perché sei un essere speciale
Ed io, avrò cura di te.”


Sono cresciuta in un orfanotrofio, insieme a centinaia di bambine. La sera, una per volta, noi bambine
raccontavamo una storia, le nostre storie. Erano una specie di favole tristi. Non favole di mamme che
conciliano il sonno, ma favole di figlie sfortunate, che il sonno lo toglievano. Ci raccontavamo delle nostre
madri: torturate, uccise, violentate.
Ogni sera, prima di dormire, ci liberavamo tutte insieme di quelle parole di dolore. Io amo le parole. Ho
imparato, venendo da luoghi di guerra, a credere nelle parole e non ai fucili, per cercare di rendere il mondo
un posto migliore. Anche e soprattutto per le donne. Ma poi ci sono i numeri.
E in Italia, in questo magnifico Paese che mi ha accolto, i numeri sono spietati: ogni 3 giorni viene uccisa
una donna, 6 donne sono state uccise la scorsa settimana. E nell’85% dei casi, il carnefice non ha bisogno di
bussare alla porta per un motivo molto semplice: ha le chiavi di casa. Ci sono le sue impronte sullo zerbino,
l’ombra delle sue labbra sul bicchiere in cucina.


“Butterò questo mio enorme cuore tra le stelle un giorno
Giuro che lo farò
E oltre l’azzurro della tenda nell’azzurro io volerò
Quando la donna cannone
D’oro e d’argento diventerà
Senza passare dalla stazione
L’ultimo treno prenderà”.

Mia madre Zakia, che tutti chiamavano Nadia, ha preso il suo ultimo treno quando io avevo 5 anni. Si è
suicidata, dandosi fuoco. Ma il dolore era una fiamma lenta che aveva cominciato a salire e ad annerirle i
vestiti quando era solo un’adolescente. Il suo corpo era qualcosa di cui voleva liberarsi, era stato la sua
tortura. Perché mia madre Nadia fu stuprata e brutalizzata due volte: a 13 anni da un uomo e poi dal sistema che l’ha costretta al silenzio, che non le ha consentito di denunciare. Le ferite sanguinano di più quando non si è creduti. L’uomo che l’ha violentata per anni, il cui ricordo incancellabile era con lei, mentre le fiamme mangiavano il suo corpo, aveva le chiavi di casa.

“Sally ha patito troppo
Sally ha già visto che cosa
Ti può crollare addosso
Sally è già stata punita
Per ogni sua distrazione o debolezza
Per ogni candida carezza
Data per non sentire l’amarezza”

Quante volte siamo state Sally? Mentre Franca Rame veniva violentata il 9 marzo del 1973, cercò salvezza
nella musica. “Devo stare calma. Devo stare calma. Mi attacco ai rumori della città, alle parole delle canzoni,
devo stare calma”, recitava nel suo potente monologo “Lo stupro”, in cui ripercorreva quel fatto drammatico.
Le parole delle canzoni possono essere messaggi d’amore e di salvezza. Io sono diventata la donna che sono perché lo dovevo a mia madre, lo devo a mia figlia che è seduta in mezzo a voi. Lo dobbiamo tutte, tutti, a una madre, una figlia, una sorella, al nostro paese, anche agli uomini, all’idea stessa di civiltà e uguaglianza.


All’idea più grande di tutte: quella di libertà.

Parlo agli uomini, adesso.

Lasciateci libere di essere ciò che vogliamo essere: madri di dieci figli e madri di
nessuno, casalinghe e carrieriste, madonne e puttane, lasciateci fare quello che vogliamo del nostro corpo e ribellatevi insieme a noi, quando qualcuno ci dice cosa dobbiamo farne. Siate nostri complici. E quando
qualcuno ci chiede “Lei cosa ha fatto per meritare ciò che è accaduto?”

“C’è un tempo bellissimo, tutto sudato
Una stagione ribelle
L’istante in cui scocca l’unica freccia
Che arriva alla volta celeste
E trafigge le stelle
È un giorno che tutta la gente
Si tende la mano
È il medesimo istante per tutti
Che sarà benedetto, io credo
Da molto lontano”.


Sono stata scelta stasera per celebrare la musica e le donne, ma sono qui per parlare delle cose di cui è
necessario parlare. Certo ho messo un bel vestito. Domani chiedetevi pure al bar “Com’era vestita Rula?”.
Che non si chieda mai più, però, a una donna che è stata stuprata: “Com’era vestita, lei, quella notte?”. Mia
madre ha avuto paura di quella domanda. Mia madre non ce l’ha fatta. E così tante donne. E noi non
vogliamo più avere paura. Vogliamo essere amate. Lo devo a mia madre, lo dobbiamo a noi stesse, alla
nostre figlie. Nessuno può permettersi il diritto di addormentarci con una favola. Vogliamo essere note,
silenzi, rumori, libere nel tempo e nello spazio. Vogliamo essere questo: musica.