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Altro che tregua olimpica: l'ombra della guerra sui giochi di Parigi

Altro che tregua olimpica: l'ombra della guerra sui giochi di Parigi

Emmanuel Macron ha chiesto una “tregua olimpica” come sono soliti fare i leader politici delle nazioni che ospitano i Giochi, ma mai come in questo 2024 l’appello del capo di Stato che si trova a essere portatore della fiaccola olimpica sembra essere così campato in aria e simbolico. Macron ha chiesto una “tregua olimpica” ma non sarà ascoltato. Non lo sarà nemmeno Papa Francesco, che all’Angelus di domenica scorsa ha lanciato un nuovo, accorato appello alla Pace parlando proprio della necessità di fare dei Giochi un momento di cooperazione tra i popoli. E nemmeno l’Onu, che a fine giugno ha fatto passare la simbolica risoluzione sulla tregua olimpica. Centoventi Paesi favorevoli all’Assemblea Generale, astenuti Russia e Siria, in guerra rispettivamente contro l’Ucraina e contro i ribelli interni.

Olimpiadi, Macron non è Pericle. E lo sport non ferma le guerre

Il villaggio olimpico sembra molto la riproposizione estiva della “montagna incantata” di Davos, sede a gennaio del World Economic Forum: un’oasi di concordia che si vuole creare, spes contra spem, nel deserto del mondo in guerra. Nel 2021 la tregua olimpica dei Giochi in tempo di pandemia tenutisi a Tokyo fu violata dalla brutale avanzata talebana in Afghanistan che una settimana dopo la cerimonia di chiusura, il 15 agosto 2021, portò gli Studenti Coranici a Kabul. Quattro e otto anni prima, i giochi di Rio e Londra furono svolti mentre proseguivano la tempesta mediorientale e la guerra civile siriana. Le Olimpiadi non sono più quelle dell’antica Grecia. Macron non è Pericle, e nessun altro leader globale lo può essere. Anzi, nell’epoca delle guerre senza limiti anche lo sport è arma di soft power e proiezione di potenza. Oltre che ultimo spazio per manifestare le forme più tenaci di nazionalismo.

L'ombra della guerra sui giochi di Parigi

I Giochi Olimpici iniziano con l’ombra della guerra comunicativa tra l’Occidente e la Russia, i cui atleti non potranno mostrar bandiera dopo i lunghi screzi col Comitato Olimpico Internazionale e dovranno gareggiare come Atleti Individuali Neutrali. Si parla poi della minaccia che aleggia sulla squadra israeliana, protetta nientemeno che dal servizio segreto interno, lo Shin Bet, in Francia. E l’inizio insicuro del venerdì olimpico, con sabotaggi ai treni diretti a Parigi monitorati dall’intelligence di Parigi, aumenta il senso di insicurezza. Nei giorni in cui ci si avvicinava ai Giochi, poi, per non farci mancare nulla abbiamo avuto notizie come l’appello all’arruolamento da parte dell’amministrazione comunale di Mosca, che vuole mobilitare i cittadini della capitale a combattere in Ucraina, l’ammonimento del generale britannico Roly Walker, capo dell’Esercito di Londra, sul rischio di una guerra globale nei prossimi tre anni, e l’incendiario discorso di Benjamin Netanyahu al Congresso degli Stati Uniti, in cui la volontà bellicosa su Gaza è stata ampiamente rafforzata.

Tregua olimpica? La “Terza guerra mondiale a pezzi” è già qui

Questa meravigliosa e irrealizzabile utopia, questa speranza che veda i Giochi tornare evento davvero mondiale e di concordia può e deve in continuazione esser perseguita e inseguita nella piena consapevolezza che, tuttavia, ci troviamo di fronte a un mondo caotico e inquieto. La guerra in Ucraina e quella a Gaza sono mine posate sotto l’ordine costituito del quadrante Europa-Mediterraneo-Medio Oriente. Non va sottovalutato anche il caos che attanaglia l’Africa sub-sahariana, con la cintura di Paesi golpisti che ormai va dall’Oceano Atlantico al Mar Rosso, quest’ultimo teatro delle incursioni dei ribelli Houthi contro il traffico marittimo. E che dire dei piccoli e grandi focolai di tensione che, dal confine Venezuela-Guyana alla Nuova Caledonia, dal Congo al Myanmar, ovunque aggiungono elementi di apprensione?

La “Terza guerra mondiale a pezzi” è già qui, insidiosa e preoccupante. Forse anche per questo alla tregua olimpica è doveroso, almeno in fondo, continuare a sperare. Le trombe di guerra suonano abbastanza forti e unanimi. Andare controcorrente a questa narrazione è, per molti leader, un attestato di speranza in un mondo diverso. Purché poi si abbiano le energie e le visioni per cercare di tradurre tale speranza in realtà….






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