Esteri

"Hong Kong non più autonoma" e Huawei: Usa e Cina flirtano col decoupling

di Lorenzo Lamperti

Mike Pompeo sostiene che l'ex colonia britannica non sia più "significativamente autonoma". A rischio il ruolo di ponte tra Occidente e Pechino

Il Pompeo è tratto. O quantomeno il movimento della mano per lanciarlo (il dado, non il segretario di Stato americano) è cominciato, in un "mercoledì da leoni" che rischia di compromettere ancora di più i rapporti tra Stati Uniti e Cina. Mike, Pompeo, ha infatti informato il Congresso degli Stati Uniti che a suo parere Hong Kong "non ha più un alto grado di autonomia" da Pechino. Affondo che arriva a pochi giorni dall'annuncio, da parte del governo cinese, di una legge sulla sicurezza nazionale che di fatto eroderebbe importanti frazioni dello status dell'ex colonia britannica.

L'informativa di Pompeo non arriva fuori dal nulla, ma è un evento programmato. Nel senso che ogni anno l'amministrazione Usa è tenuta a ribadire lo status di autonomia di Hong Kong, per garantire la prosecuzione delle relazioni su basi diverse rispetto a quelle che caratterizzano il rapporto con la Repubblica Popolare. Pompeo ha deciso di attendere che cosa sarebbe successo durante le "due sessioni", i lavori parlamentari cinesi, in realtà presumendo che Pechino si sarebbe mossa con decisione sull'ex colonia britannica dopo un anno di proteste e scontri che ne avevano già messo in dubbio la tradizionale funzione di "ponte verso l'Occidente".

Il costante peggioramento dei rapporti con Washington e lo switch della campagna elettorale di Donald Trump (ma anche di Joe Biden) su un China tune hanno convinto (se ce ne fosse stato ulteriore bisogno) il Partito Comunista a mettere da parte gli indugi. "Se davvero il rapporto con gli Usa è compromesso, tanto vale mettere al sicuro le proprie questioni interne": così si può interpretare il pensiero di Xi Jinping.

"Se un tempo gli Stati Uniti speravano che una Hong Kong libera e prospera sarebbe stata un modello per la Cina autoritaria, è ora chiaro che la Cina sta plasmando Hong Kong su se stessa", ha detto invece Pompeo, mettendo nero su bianco quello che Washington pensa della Repubblica Popolare su vasta scala.

Ma che cosa può succedere ora? Potenzialmente, di tutto. In primis, l'imposizione di sanzioni verso politici ed entità di Pechino protagonisti della stretta. Sembra questo il passo più probabile, insieme magari all'offerta di asilo politico ai dissidenti o a chi ha subito arresti durante le proteste. Non è però automatica la revisione dello status, che di fatto eliminerebbe il canale prefenziale dei rapporti bilaterali tra Usa e la regione amministrativa speciale cinese e renderebbe automatiche le stesse sanzioni e le stesse tariffe imposte alla "mainland". Con conseguenze anche dal punto di vista burocratico, legale e di visti.

Mettere in discussione lo status di Hong Kong non è un semplice gioco sofistico. In discussione ci sono gli affari di 1300 compagnie americane che operano nell'ex colonia britannica e i circa 67 miliardi di dollari di interscambio (dati del 2018). Con una bilancia commerciale nettamente sbilanciata a favore degli States, con un surplus tra export e import di 16,8 miliardi di dollari. Le esportazioni americane sono aumentate esponenzialmente nel decennio 2008-2018, passando da 2,5 a 37,3 miliardi di dollari. Mica quisquilie.

Revocare lo status a Hong Kong comporterebbe dunque serie conseguenze anche per le stesse compagnie americane e un contraccolpo all'export. E priverebbe di fatto alla Cina il ponte verso l'occidente, così come all'occidente il ponte verso la Cina. Il famoso decoupling, insomma. Per arrivare alla decisione più estrema, servirebbe comunque un iter di approvazione del Congresso e la firma presidenziale. Possibile? Certo, ma non sicura. Probabile che la questione vada avanti per un po', tenendo conto delle elezioni in programma a Hong Kong dopo l'estate e, soprattutto, il voto negli Usa del 3 novembre. Ma, insomma, il piano appare sempre più inclinato.

Ma i grattacapi cinesi non si fermano a Pompeo, che dopo aver sganciato il siluro su Hong Kong ha fatto sapere di aver parlato con l'omologo indonesiano (messaggio tra le righe a Pechino: "Occhio che parlo coi tuoi vicini"). La Corte suprema della British Columbia ha infatti deciso che il procedimento di estradizione nei confronti di Meng Wanzhou, la figlia del presidente e fondatore di Huawei, arrestata in Canada su richiesta degli Stati Uniti, può andare avanti. 

Nell'immediato non cambia nulla, perché la decisione dei giudici arriva su una richiesta dei legali di Meng, che avevano chiesto l'interruzione del processo di estradizione. Quindi lady Huawei resta per ora ai domiciliari in Canada, con il procedimento che andrà avanti. Inevitabile, comunque, che sul piano inclinato ci finisca anche questo peso.