Esteri
Il silenzio di Trump sull'Ucraina è la sua nuova arma politica: ora tocca a Musk fare lo showman
I silenzi di Trump sono una mossa attendista che evita di creare nuove aspettative dopo quelle generate in campagna elettorale
Meno promesse, più silenzio: Trump si prepara a governare
Mentre il mondo si scalda di dichiarazioni roboanti sull’Ucraina, a far discutere è un silenzio inatteso: quello di Donald Trump. Il presidente eletto degli Stati Uniti è stato chiamato in causa da retroscenismi, voci di corridoio e ricostruzioni mediatiche, si è parlato addirittura di una telefonata (poi smentita) con Vladimir Putin, e non ha commentato le manovre dell’amministrazione di Joe Biden, giunta alle sue ultime settimane, e del primo ministro britannico Keir Starmer di autorizzare gli attacchi in profondità con i missili occidentali sul suolo russo.
Scelte che hanno suscitato una ridda di conseguenze: dall’ufficializzazione dell’aggiornamento della dottrina nucleare russa, decisamente più aggressiva, all’innalzamento della tensione da parte di leader come il primo ministro polacco Donald Tusk, che ha evocato l’avvicinamento del mondo alla guerra globale.
Il silenzio di Trump è tattico e strategico. E per capirlo bisogna partire da due presupposti. Il primo: l’amministrazione Biden non è ridotta di facoltà esecutive per il fatto di essere uscente. Il secondo: per spiegare le mosse pro-Ucraina del presidente uscente spesso si crea la narrazione di un’alterità a Trump che su molti punti esiste più sulla carta che sulla realtà. Aggiungiamo a questo un dato chiaro, e cioè che spesso le cronache di politica estera sono la somma dei commenti alle dichiarazioni di singoli leader più che una presentazione di fatti. Trump, non sbagliando, sa che i fatti a lui imputabili saranno quelli che avverranno dopo il 20 gennaio, data del suo insediamento. E come sul Medio Oriente, in due mesi il mondo può cambiare. Specie in un contesto come quello ucraino, dove l’avanzamento delle voci su possibili esiti negoziati del conflitto sta rinfocolando la competizione sul campo, rendendo difficile capire, nonostante il duro inverno in arrivo, quale sarà la situazione a gennaio.
Del resto, la guerra è di per sé un negoziato armato permanente: ogni parte, sul campo, prova a rafforzare la sua posizione il più possibile pensando a quel tipo di pace che sarà più vantaggiosa per il suo futuro. Ci deve forse stupire il fatto che questo negoziato armato abbia una fase più acuta mentre la politica si trova a riprendere in mano l’ipotesi di una fine diplomatica della guerra? Niente affatto. Da tempo l’ipotesi di una fine di questo tipo della guerra è contemplata a Washington anche nel campo democratico, e in un certo senso il silenzio di Trump serve anche a ricordare che il presidente eletto si troverà una guerra d’Ucraina da gestire che sarà innanzitutto il frutto degli equilibri sul campo.
C’è l’equivoco che la volontà di Trump di porre fine al conflitto ucraino passi per la svendita di Kiev a Mosca, una percezione errata che non tiene conto della volontà americana di consolidare la visione della “pace attraverso la forza” richiamata anche da Volodymyr Zelensky nella sua conversazione post-elezione col tycoon.
Se – e ripetiamo se: a parlare saranno i fatti – il disegno di Trump sarà quello della trattativa con la Russia, a maggior ragione la mossa di Biden e Starmer di aprire ai raid missilistici per difendere la sacca di Kursk servirà a Zelensky per avere un territorio russo da usare come merce di scambio al tavolo delle trattative. Anche e soprattutto perché il grande dilemma dell’amministrazione entrante sarà capire se a volere il negoziato sarà…la Russia! Convitato di pietra di un discorso che troppo spesso si tende a semplificare, Mosca sta avanzando sul terreno lentamente ma inesorabilmente, bombarda le infrastrutture energetiche ucraine, alza l’asticella nel “rodeo” atomico con l’Occidente. In questo quadro, per Biden e Trump la cosa peggiore da fare sarebbe ipotizzare un’alterità radicale tra le due presidenze.
Putin, del resto, non si fa grandi illusioni sulla presunta postura “filorussa” di un Trump 2.0, ed è noto che la sua preferenza per le elezioni Usa sarebbe stata, prima del ritiro, una riconferma di Joe Biden, leader di cui ha apprezzato, nella rivalità, il pragmatismo e il gradualismo oltre che la comune comprensione dei rapporti di forza e delle linee rosse che chi è cresciuto politicamente nella Guerra Fredda può ben comprendere. L’imprevedibilità dell’agenda del presidente eletto, invece, è nota a Mosca. Il primo Trump, in carica dal 2017 al 2021, dopo essere partito con l’esplicita volontà di una distensione con Mosca, è finito per guidare una delle amministrazioni più decise nel contrasto alla Russia della recente storia americana. Nel Trump-uno il Pentagono ha sbloccato per la prima volta la fornitura di aiuti militari letali all’Ucraina, che ricevette missili controcarro, mitragliatrici e altri asset mentre combatteva contro i separatisti filorussi in Donbass. Una decisione presa direttamente da Trump, che operò a sostegno di Kiev superando la prudenza di Barack.
Inoltre, Trump ha superato Obama nel contenimento agli avversari degli Usa legati a Mosca, demolendo gli accordi sul nucleare iraniano, bombardando due volte i lealisti siriani di Bashar al-Assad e pianificando un fallito golpe contro Nicolas Maduro in Venezuela; nell’era Trump sono aumentate le sanzioni commerciali contro istituzioni e entità economiche russe ed è aumentata la proiezione di Washington per aggredire i mercati energetici europei esportando gas naturale da sostituire all’oro blu di Mosca.
LEGGI ANCHE: Usa, Trump vuole indagare su elezioni 2020 usando il dipartimento di Giustizia. Rumors, pronto a licenziare tutto il team legale di Jake Smith
In quest’ottica, i silenzi di Trump hanno una valenza attendista, prefigurano l’evoluzione dell’agenda del presidente eletto in relazione all’evolversi della situazione e evitano a The Donald di seminare eccessive aspettative dopo quelle – numerose – suscitate in campagna elettorale (“Terminerò la guerra in Ucraina in 24 ore”) e dopo la vittoria contro Kamala Harris (“Porrò fine a tutte le guerre”). La parte dello showman è lasciata a Elon Musk. Trump sceglie per sé una postura più istituzionale, dunque politica. E questo non è detto sia un male, in prospettiva futura.