Esteri
Usa 2020,Trump vs Biden non finisce alle urne. Gli scenari della guerra legale
Ecco tutti gli scenari su grandi elettori, ricorsi e passaggi legali che possono paralizzare gli Usa dopo la sfida Trump-Biden
Un “incredibile numero di ricorsi”, un esercito di avvocati già al lavoro, la minaccia di portare le elezioni di Usa 2020 fino alla Corte suprema, il rifiuto di “concedere” la vittoria. In sostanza, la domanda che tutti si fanno in queste ore è: cosa succederà se (o, più probabilmente, quando) i voti postali indicheranno Joe Biden come nuovo presidente degli Stati Uniti d’America? Negli Stati contesi sul filo del rasoio la battaglia è già in corso: in Pennsylvania la campagna di Trump ha già presentato tutta una serie di ricorsi, tra cui uno per chiedere il blocco dello spoglio “finché non vi sia una significativa trasparenza” sulla procedura, e un altro per chiedere maggiore accesso agli osservatori repubblicani nei seggi elettorali (ma quest’ultima è già stata respinta da una corte dello Stato).
Inoltre, il campo trumpiano ha chiesto alla Corte suprema di intervenire nel tentativo di accorciare la ‘finestra’ di tre giorni in cui è ancora possibile ricevere i voti postali, che si ritiene venire in prevalenza dall’elettorato democratico. Simile il discorso nel Michigan, dove pure è stato presentato ricorso per ottenere “significativo accesso” alle procedure di conteggio dei voti.
In Georgia – dove il riconteggio appare probabile, se lo scarto dei voti tra i due contendenti rimarrà molto basso - è stata respinta la richiesta di fermare lo spoglio, un procedimento analogo è stato avviato in Nevada. La strategia di Trump a detta degli analisti è chiara: mettere in discussione la regolarità del voto, soprattutto quello postale, allo scopo di mantenere la presidenza.
In qualche modo si entra in un territorio inesplorato: non regge, infatti, il paragone con il riconteggio della Florida nelle elezioni del 2000. Nella gara tra George Bush jr e Al Gore, il minuscolo scarto di voti che separò i due contendenti era messo in discussione non solo per il numero di voti, ma per via di alcune incongruenze amministrative, e comunque nessuno dei due contendenti accusò l’altro campo di frode.
Poi c’è un problema di tempi. L’interregno tra l’Election day e il giorno del giuramento del nuovo presidente dura 79 giorni: in questo periodo cadono appuntamenti cruciali, tra cui quello del 14 dicembre, quando i grandi elettori devono emettono esprimere il voto che determinerà chi sarà il presidente. Prim’ancora, l’8 dicembre, c’è il cosiddetto ‘safe harbor day’: è entro questa data che la legge permette il conteggio delle schede, ossia è entro questa data che tutti i voti devono raggiungere il “porto sicuro”. A quel punto gli Stati certificano il risultato e determinare i grandi elettori.
Le procedure di riconteggio sono complesse e lunghe: dunque, più ricorsi vengono presentati, più esiste la possibilità che uno Stato, o più Stati, non certifichino un risultato ufficiale entro la data dell’8 dicembre, quando devono essere nominati i grandi elettori. Sin dalla contesa Bush-Gore del 2000, esiste una sentenza della Corte suprema secondo la quale gli Stati possono decidere loro i grandi elettori, senza rispettare necessariamente l’esito dell’urna. Ed il punto è che i parlamenti degli Stati più contesi – Pennsylvania, Arizona, Georgia, Michigan e Wisconsin – sono a maggioranza repubblicana.
Il rischio, insomma, è che l’8 dicembre ci si trovi ad uno stallo e che la contesa legale intorno alla presidenza entri nel suo terzo round. A quel punto sarà la Camera dei Rappresentanti a votare il presidente: benché a maggioranza democratica, la base giuridica di questa procedura d’emergenza è considerata sufficientemente nebulosa da aprire ulteriormente la strada ad un intervento della Corte suprema. La quale con la nomina di Amy Coney Barrett dà ai repubblicani una maggioranza di sei voti a tre.
Infine, ovviamente sui media Usa tiene banco anche un altro tema: Trump accetterà la vittoria di Biden? Secondo una tradizione caratterizzante per la democrazia americana praticamente mai venuta meno (iniziata almeno nel 1896, quando William Jennings Bryan inviò un cordiale telegramma a William McKinley), lo sconfitto tiene il “concession speech”, un discorso in cui pubblicamente riconosce la vittoria dell’avversario, ossia la propria sconfitta, con lo scopo esplicito di contribuire in modo sostanziale ad un trasferimento pacifico dei poteri. Come ha scritto Neville Shepard sul Washington Post, “la concessione non è in alcun modo vincolante, al contrario, nasce dalla fede di un candidato nelle norme elettorali”. Che oggi, invece, si vedono messe in discussione.
In pratica, sia pur non codificato nella Costituzione, il venir meno di questo passaggio può finire con il rendere ancora più aspra la sfida legale, contribuendo a trascinare la contesa delle carte bollate fino a gennaio e rendendo così ancora più evidente la spaccatura del Paese.