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La pittura di “macchia”: una rivoluzione tutta italiana
di Raffaello Carabini
Come scriveva Giorgio Castelfranco, “i macchiaioli mostrano con la massima chiarezza quella che è stata la vera vena poetica della pittura italiana dell’Ottocento: questo senso idillico, questa capacità di una immagine raccolta, questo saper cogliere l’impressione d’una natura assorta e tranquilla”. E lo mostrano in un periodo brevissimo, dal 1850 al 1870 circa, inventando una pittura fondata su nuovi valori nel rapporto tra i colori e nei contrasti tra luce e ombre, il tutto tanto deciso da essere quasi dipinto per macchie. E da essere esclusi dalle esposizioni annuali della fiorentina Società Promotrice delle Belle Arti per “eccessiva valenza di chiaroscuro”.
Se ne facevano comunque una ragione discutendo animatamente nel loro “covo” del Caffè Michelangelo, situato nell’attuale via Cavour tra Palazzo Medici e il Convento di San Marco. Lì un manipolo – poi lo divennero veramente quando tutti, escluso Giovanni Fattori (per contrappasso il massimo raffiguratore delle battaglie e della vita dei soldati del XIX secolo), parteciparono alle guerre per l’indipendenza nazionale – di giovanotti di belle speranze e poetiche intelligenze si riunivano ogni sera a discutere sui crismi della “nuova arte”.
Proprio “I macchiaioli – Una rivoluzione d’arte al Caffè Michelangelo” si intitola la bella, articolata ed elegante mostra aperta nelle Scuderie del Castello Visconteo di Pavia fino al prossimo 20 dicembre. Oltre ottanta opere firmate da tutti i maggiori esponenti del gruppo: da Fattori al “teorico” Telemaco Signorini, le cui parole proposte da un attore in prima persona punteggiano la visita, dall’idealista rigoroso Vincenzo Cabianca al geniale Raffaello Sernesi (morto a 28 anni di cancrena per essersi rifiutato di farsi amputare un piede ferito in combattimento), da Francesco Saverio Altamura, il più “vecchio stile” come mostra il suo magnifico “I funerali di Buondelmonte”, al paradigmatico Cristiano Banti, dal laterale Silvestro Lega al tuttofare (fu anche critico d’arte, scultore, docente e morì appena cinquantenne durante un ballo in casa di un suo studente) Adriano Cecioni, dal precursore Serafino De Tivoli agli epigoni celeberrimi Giovanni Boldini, Giuseppe De Nittis e Federico Zandomeneghi.
Tavolette o tele per la gran parte di piccole dimensioni per poter essere trasportate con facilità “en plein air” dove finalmente si iniziava a dipingere, seguendo la scuola francese di Barbizon ma anche le idee personali del gruppo, per la maggior parte paesaggistiche, ma in cui la presenza dell’uomo è spesso pregna di significati sociali e di immaginazione narrativa (non si può non guardare con attenzione il lirico “Le monachine” di Cabianca).
A cominciare dalle opere di genere storico e letterario – che raffiguravano un evento per attuare senza censure una protesta circa un altro contemporaneo – per continuare con quelle dedicate alla storia, soprattutto militare, del periodo, passando per la progressiva maturità delle vedute (evidente l’evoluzione tra quelle anticipatrici di Lorenzo Gelati e quelle suggestive di Sernesi a Castiglioncello), il loro stile di stesura delle tele, la “macchia”, definisce un “nuovo sguardo sulla realtà” che servì a rinnovare drasticamente l’ambiente artistico italiano.
Forse ai macchiaioli mancò, come appunta ancora Castelfranco, “quel saper fermare la cosa nell’attimo, traguardarla in un attimo solo della sua vita, in un solo e irripetibile incontro con la luce, battuta unica, estemporanea, di una commedia di vita gioiosa”. Forse. Ma non è affatto detto che quest’altra corda della pittura europea del secondo 800 sia ancora oggi la più significativa.