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Libertà in vendita. Il corpo fra scelta e mercato, la recensione
Valentina Pazé affronta la delicata disputa sulla “libertà di vendersi” delle donne
Libertà in vendita. Il corpo fra scelta e mercato, di Valentina Pazé, Bollati Boringhieri
«Libertà va cercando, ch’è sì cara, / come sa chi per lei vita rifiuta» (Purgatorio, Canto primo, vv. 71-72), così Dante, e con il tema della libertà Valentina Pazé pubblica Libertà in vendita. Il corpo fra scelta e mercato, (Bollati Boringhieri, pp. 192, euro 16).
Un saggio che coinvolge dialetticamente il corpo delle donne declinato tra libero arbitrio, libertà di agire e libertà di volere. Un corpo che è oggetto di discussione da tempo. È stato al centro di manifestazioni, noto è lo slogan femminista “il corpo è mio e me lo gestisco io”: un’espressione che eticamente avrebbe delle ripercussioni non indifferenti proprio riguardo la categoria di “libertà”, il diritto di avere il controllo del proprio corpo, che invero non è riconosciuto giuridicamente come “diritto di proprietà”.
Pazé enuclea la questione dal punto di vista filosofico-politico, ricostruendone la storia e ripercorrendo «una concezione soggettivistica e relativistica dei valori», la «salvaguardia della vita e delle membra» secondo Hobbes, il concetto spinoziano della necessità difeso da Spinoza; Locke, di converso, è stato il primo a distinguere in modo chiaro ed esplicito la “libertà dell’agire” e la “libertà del volere”: volontà e azione. Libertà e necessità che caratterizzano l’identità di ciascun essere umano, perciò si è liberi di agire, fino a che punto? E la responsabilità?
Valentina Pazé affronta la delicata disputa sulla “libertà di vendersi” delle donne: alcune sono forzate a vendere il proprio corpo spinte da condizioni di bisogno, vittime senza diritti, altre hanno scelto liberamente di operare lo scambio contrattualistico con terzi per vantaggi puramente economici. Dalla libertà di vendersi alla libertà di donarsi e di donare: prostituzione, aborto, maternità surrogata, utero in affitto che l’autrice vede come un nuovo modo di spalancare un’ennesima porta alla mercificazione del corpo femminile «stravolgendo il significato della stessa esperienza del nascere e del mettere al mondo bambini e bambine». Qui le argomentazioni diventano complicate e non si possono trattare in modo univoco: è una vasta e intrecciata complessità. Che si può e si dovrebbe discutere con dovizia.
Dal Novecento ai nostri giorni di commercio di corpi umani, o di organi, non se ne parla ma di fatto accade. È una aberrante realtà: «il commercio dei corpi umani è una porzione crescente del giro d’affari dell’industria biotecnologica … che coinvolge più di 1300 società che prelevano, analizzano e trasformano i tessuti in prodotti altamente remunerativi» (L. Andrews e D. Nelkin). Il corpo da oggetto di studio, di sperimentazioni, diventa anche oggetto di mera utilità per le donne che rivendicano la propria libertà, sebbene il corpo non sia «un oggetto astratto, ma è un’entità culturale che riflette necessariamente il proprio ambiente fisico e sociale». In un’attenta disamina l’Autrice articola fra i casi determinati anche l’uso del velo e la libertà di sottomettersi: noto è l’episodio accaduto in Francia quando nel 1989 tre ragazze furono espulse da un liceo di Creil per essersi rifiutate di togliere l’hijab; mentre in Iran le donne chiedono di essere libere di indossare o meno il velo. È evidente che ci siano dualità che talvolta confliggono. Risultano oppositive. Sembra ragionevole disporsi in modo che prevalga un certo “relativismo” o “relazionismo” delle “cose” e non l’“assoluto”, quando si sostengono questioni inerenti all’umano, non solo il diritto, ma l’etica debba essere presa in considerazione.
La “Libertà” che Pazé «va cercando» è anche quella che ci è stata sottratta nel periodo del cosiddetto lockdown, parimenti, nel momento in cui argomenta i temi “schiavitù”, “lavoro”: ogni uomo, secondo Grozio, è libero di impegnare il suo tempo ma non di vendersi o di essere venduto, poiché la sua persona non è proprietà alienabile. Non è merce. Il lavoro che in Kant ad esempio è distinto tra locatio operis, ovvero mansione dove il soggetto si presta in cambio di denaro, e tra locatio operarum, ποίησις, creatore di un’opera, artefice di qualcosa alla quale dona la sua soggettività; con Marx l’operaio da oggetto del capitalista e servo dovrebbe liberarsi dalle catene della borghesia. Il lavoro non è un bene commerciabile. La porzione dedicata all’autonomia come diritto è densa di insidie. Dobbiamo riconoscervi dei limiti? Nel fragile arcipelago della “libertà” spesso inneggiato, abusato, bistrattato sono state dimenticate le altre «due sorelle rivoluzionarie: égalité e fraternité. Senza le quali una reale emancipazione è impossibile». Puntualizza Pazé. E forse non abbiamo rimembranza del senso dell’essere e della vita in un’epoca in cui predomina la cultura oggettiva con le sue produzioni ignare alla domanda di senso: dignità!?!