Libri & Editori
Coronavirus, razzismo e solidarietà: la pandemia vissuta dai sinoitaliani
Semi di tè, libro di Lala Hu per People, racconta le vicende della comunità sinoitaliana allo scoppio dell'emergenza sanitaria, lontano dagli stereotipi
Doveva essere l'anno del turismo e della cultura Italia-Cina. Il 2020 invece è purtroppo diventato tanto, troppo, altro. E' diventato l'anno del Covid-19 e improvvisamente si è tutto fermato. Si sono fermati gli aerei, si è fermato il dialogo, si è fermata la conoscenza reciproca. E si è fermata anche la vita di via Paolo Sarpi, uno dei simboli della presenza cinese in Italia. Da qui, in una Milano pandemica, Lala Hu racconta in "Semi di tè" (in uscita con People) le storie di ragazze e ragazzi, donne e uomini, e il modo in cui hanno vissuto una delle sfide più difficili. I sorrisi che si trasformavano improvvisamente in sguardi pieni di sospetto, se non addirittura sinofobia. Storie che aiutano a ricordare quanto siano ridicoli e assurdi gli stereotipi che hanno trovato ancora una volta spazio nelle parole e nei gesti di politici e media. Un libro importante che aiuta a ricordare i pilastri su cui sono costruite le nostre città e la nostra civiltà: le persone.
Semi di tè, Lala Hu
"Che strano destino quello delle persone di origini cinesi in Italia! Si era passati dalla paura per il possibile contagio di famigliari e amici in Cina, alla preoccupazione per il razzismo e le discriminazioni nella vita quotidiana e, una volta che l'epidemia si era spostata in Italia, alla paura del contagio per se stessi e i propri cari."
Sullo sfondo dei mesi più terribili in Italia della pandemia di Covid-19 nel 2020, il libro Semi di tè narra le esperienze di sinoitaliani nell'affrontare l'emergenza. Tra fatti quotidiani ed eventi tragici, l'autrice Lala Hu intreccia le storie di solidarietà di persone tanto diverse (un attore, un medico, un intellettuale, una volontaria) quanto legate fra loro dall'appartenenza a due culture, presentando uno spaccato variegato e poco conforme agli stereotipi. Interrogandosi sulla propria identità e sul proprio ruolo nella società in cui vivono, i protagonisti individuano nuove forme di partecipazione e collettività.
L'autrice
Lala Hu
Laureata con lode in Comunicazione d’Impresa all’Università Cattolica di Milano, ha conseguito il dottorato in Management all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Al momento è ricercatrice e docente di Marketing al Dipartimento di Scienze dell’economia e della gestione aziendale dell'Università Cattolica di Milano, dove insegna Marketing, Marketing Management e International Marketing.
È Visiting Professor presso il King’s College London – Department of Digital Humanities, docente di International Marketing al Master Global Management China (Università Ca’ Foscari Venezia, Napoli “L’Orientale”, Roma Tre, Università Macerata e Università degli Studi di Bergamo) e docente di Social Media Marketing presso H-FARM.
Ha all'attivo un’esperienza lavorativa presso l’agenzia di pubblicità Leo Burnett, oltre ad aver presentato gli studi della sua ricerca in conferenze nazionali e internazionali.
Scrive per i blog del Corriere della Sera “La città nuova” (su tematiche relative alla società multiculturale) e “La nuvola del lavoro” (sui temi del lavoro).
Editore: People
Data di Pubblicazione: luglio 2020
Pagine: 89
EAN: 9788832089936
ISBN: 8832089939
Semi di tè, Lala Hu per People
LEGGI UN ESTRATTO DEL LIBRO SU AFFARITALIANI.IT:
Anche a Milano la maggior parte dei locali cinesi del quartiere Paolo Sarpi, la cosiddetta Chinatown del capoluogo lombardo dove ero cresciuta ed ero tornata da poco ad abitare, era chiusa. Una decisione in controtendenza rispetto al clima generale di Milano e di altre città lombarde, in cui si stentava ancora a credere che ci fosse piombato sulla testa un flagello. Anzi, era necessario ripartire, ancor prima di essersi fermati. Per contrastare la paura da coronavirus, il sindaco del capoluogo lombardo a fine febbraio lanciò la campagna di comunicazione «Milano non si ferma». L’intento era rassicurare milanesi e turisti. Il messaggio fu ripreso da altre città lombarde e da molti politici che invitarono a tornare alla normalità e a riaprire tutto. Ma gli abitanti di origine cinese si mantennero più cauti.
La presenza cinese nella zona compresa tra i Bastioni di Porta Volta e via Canonica, che si dirama lungo via Paolo Sarpi e le vie a essa perpendicolari, ha una lunga storia. Conosciuta nel secolo scorso come El bôrgh di scigôlatt, il borgo degli ortolani, fu la zona d’insediamento dei primi cinesi arrivati in Italia negli anni Venti del Novecento. Erano originari del distretto di Qingtian, vicino alla città di Wenzhou, nella provincia del Zhejiang, provincia da cui proviene la maggior parte dei cinesi d’Italia.
Al loro arrivo, si erano specializzati nel piccolo commercio. Vendevano bigiotteria e cravatte a un prezzo bassissimo, due lile. Solo dopo la seconda ondata migratoria cinese in Italia, dagli anni Ottanta, molti cinesi si erano specializzati nella ristorazione e, negli anni Novanta, avevano intensificato le attività manifatturiere nel settore tessile e della pelletteria. Dagli anni Duemila, poi, i settori d’impiego si erano maggiormente diversificati fino a includere bar, agenzie di viaggi, negozi di vendita e di assistenza di prodotti elettronici, servizi vari. Anche grazie alla crescita economica cinese, erano arrivati molti liuxuesheng, che provenivano anche da altre province della Cina oltre a quella tradizionale del Zhejiang. In parte, questa trasformazione si rifletteva anche nella zona Paolo Sarpi.
In seguito alla pedonalizzazione della via principale nel 2011 e all’apertura di nuove stazioni della metropolitana, il quartiere aveva vissuto un’ampia riqualificazione. Nonostante ci fossero ancora svariati negozi cinesi all’ingrosso, la cui presenza in passato aveva creato tensioni coi residenti italiani sfociando in alcune rivolte dei commercianti cinesi nel 2007, altri esercizi avevano cambiato la loro destinazione d’uso. Si erano moltiplicati i nuovi locali di tendenza, aperti sia da imprenditori italiani sia da seconde generazioni cinesi. Questi locali vendevano bibite, ravioli, noodles o altri piatti più ricercati rispetto a quelli della cucina tradizionale cinese che spesso veniva associata a un basso prezzo e a una bassa qualità.
Per la strada si potevano trovare venditori ambulanti con piccole cassette di snack o prodotti tradizionali. Tra loro c’era un signore che si spostava in bicicletta per vendere la propria merce. Durante i weekend o le festività, mentre mi trovavo a casa, lo sentivo spesso passare suonando il campanello della bici e urlando: «Pannocchie, zongzi, liangpi!». Ogni tanto lo incrociavo, era un signore sui quarant’anni con i baffetti e portava un cappellino. Più che interessata ai suoi prodotti, fui meravigliata dall’incontrare la voce che sentivo dalla finestra. Non comprai mai nulla, ma salutai il venditore un paio di volte, anche se lui mi guardò perplesso, non capendo se ci conoscessimo o meno.
Il quartiere era dunque diventato una meta culinaria e di passeggio molto frequentata, guadagnando negli anni più recenti anche gli elogi da parte dei media che ne lodavano la vivacità e la convivenza multiculturale pacifica. A onor del vero, l’integrazione non era pienamente compiuta a livello di interazioni fra italiani e cinesi che non fossero in prevalenza di natura commerciale, ma le tensioni del 2007 erano un lontano ricordo. La rigenerazione urbana di Paolo Sarpi aveva avuto però anche effetti negativi. I prezzi delle case erano aumentati di molto, minacciando di conseguenza di allontanare i residenti storici, italiani e cinesi.
Durante l’anno, la manifestazione del quartiere che richiama in assoluto più persone, provenienti da Milano e da altre città, è quella legata ai festeggiamenti del Capodanno cinese. Per il 2020, le celebrazioni si sarebbero dovute tenere domenica 2 febbraio. I preparativi andavano avanti da settimane e via Paolo Sarpi era decorata da lanterne rosse già dal periodo natalizio. Con lo scoppio dell’epidemia in Cina, però, tra le persone si era diffusa un po’ di paura a recarsi nel quartiere cinese. Gli organizzatori della manifestazione pensarono che nel momento più difficile del contagio in Cina fosse più giusto annullare i festeggiamenti in segno di solidarietà alla popolazione cinese. Le lanterne furono tirate giù.
Nel quartiere regnava un silenzio surreale. Sembrava quasi che il clima pacifico e vivace che si era andato creando negli ultimi anni fosse stato d’un tratto messo in pausa. In un’atmosfera sospesa, i negozi dei cinesi chiusero e la strada principale si svuotò completamente. Non sentii più dalla finestra il venditore in bicicletta.