Il caso Mulas riapre il dibattito su pericolosità sociale e limiti del sistema - Affaritaliani.it

Milano

Il caso Mulas riapre il dibattito su pericolosità sociale e limiti del sistema

Il sistema si ferma nel momento in cui la pena si esaurisce. Ma in presenza di reati così gravi è lecito chiedersi se non sia il momento di riconsiderare il bilanciamento tra garanzie individuali e protezione collettiva

di Simona Ceretta

Il caso Mulas riapre il dibattito su pericolosità sociale e limiti del sistema

Il caso giudiziario che coinvolge Massimiliano Mulas, l’uomo accusato di una brutale violenza sessuale ai danni di una bambina di undici anni, riporta al centro del dibattito un nodo del nostro sistema penale: cosa accade alla fine della pena, quando non si applicano automaticamente misure di sicurezza?

Mulas, che ha scelto il rito abbreviato, al momento è detenuto nel reparto riservato ai sex offender del carcere di Gorizia. Ma la domanda che inquieta, al di là del processo in corso, è una: esiste un controllo adeguato al termine della pena per soggetti che hanno commesso reati così gravi e con un potenziale recidivante elevato?

Il nostro ordinamento prevede le misure di sicurezza personali, sia detentive sia non detentive, da applicare quando ricorrono due condizioni: l’avvenuta commissione di un reato e la pericolosità sociale dell’autore. La valutazione di questa pericolosità viene rimessa in prima battuta al giudice nel momento in cui si pronuncia sulla responsabilità penale dell’imputato. Ed è qui che si annida la fragilità del sistema: la prognosi sulla futura pericolosità viene formulata in una fase in cui spesso non si dispone di elementi sufficienti per stabilire il futuro comportamento del reo e la probabilità che commetta nuovamente dei reati. In sostanza, si chiede al giudice di valutare l’attualità del rischio sulla base di informazioni talvolta parziali e generiche.

Nel caso specifico, il tema si fa ancora più complesso. Sembrerebbe infatti che l’imputato abbia precedenti per reati sessuali, ma ai danni di persone maggiorenni. Questa circostanza, qualora confermata, impedisce l’applicazione automatica della misura di sicurezza prevista dall’articolo 609-nonies del codice penale, che scatta solo nel caso in cui la condanna riguardi abusi su minori. In tal senso, l’ordinamento si affida a una valutazione discrezionale del giudice, che potrà o meno decidere per l’adozione di ulteriori cautele una volta eseguita la pena detentiva.

Le misure previste esistono, è vero: imposizione di restrizione dei movimenti e della libera circolazione, divieto di frequentare luoghi dove siano presenti minori, interdizione da attività che comportino un contatto abituale con soggetti vulnerabili, obbligo di comunicare la residenza o gli spostamenti alla polizia. Ma sono strumenti che entrano in gioco solo se attivati, caso per caso, con valutazioni ad hoc, non vi è alcun automatismo.

Il sistema, insomma, si ferma nel momento in cui la pena si esaurisce. In presenza di reati così gravi, che suscitano allarme sociale e pongono a rischio categorie particolarmente fragili, è lecito chiedersi se non sia il momento di riconsiderare il bilanciamento tra garanzie individuali e protezione collettiva. La funzione rieducativa della pena non può e non deve essere messa in discussione, ma non può nemmeno farci dimenticare che la sicurezza pubblica è un bene costituzionalmente rilevante.

Il caso Mulas evidenzia un limite strutturale del sistema: laddove non intervenga una norma che imponga un controllo automatico e proporzionato alla gravità del reato, il rischio che soggetti socialmente pericolosi tornino a muoversi liberamente, al termine della pena, resta concreto.

Avv. Simona Ceretta – Lexpertise

 








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