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Coronavirus, call center: non siamo indispensabili, metteteci in smartworking

Coronavirus, call center: non siamo indispensabili, metteteci in smartworking

Grande è la confusione tra i decreti. Tra permessi e divieti, il lockdown da coronavirus coinvolge sempre più categorie produttive in tutta Italia. Tante, ma forse non tutte. Affaritaliani.it Milano ne ha parlato con Adriano Gnani, segretario per la Lombardia del sindacato Uilcom, che rappresenta la categoria dei lavoratori dei call center.

Si sono verificati casi di positività, e purtroppo due decessi, tra i lavoratori dei call center in Italia. Qual è la situazione nel settore?

Purtroppo due colleghi, uno a Milano e uno a Roma, sebbene entrambi giovani, sono stati contagiati e uccisi dal coronavirus. Naturalmente i protocolli sono seguiti, ma il punto è un altro, e cioè che non sempre si tratta di attività lavorative essenziali, e anche se i decreti di questi giorni nominano la categoria non tengono conto di differenze fondamentali. In alcune aziende, per esempio, è attivato lo smartworking, in altre si va ancora in ufficio, nelle strutture, dove le distanze di sicurezza non sono garantite. Ma non tutti i servizi di callcenter sono indispensabili in questa situazione di necessità, e non è stata fatta alcuna differenza.

Le norme sono rispettate?

Non sono rispettate le distanze. Nelle realtà in cui siamo presenti come sindacato, sappiamo che ci sono situazioni virtuose, nelle aziende più grandi, dove sono state garantite le distanze e la santificazione per garantire le condizioni ottimali. Ma in realtà i call center sono molti, anche piccoli: noi invitiamo a contattare le autorità laddove non dovesse esserci sindacato, e alcune aziende hanno infatti avuto la visita delle autorità. 

Ma il lavoro di call center è davvero indispensabile in questa situazione?

Assolutamente no. L’80% dei call center attivi non ha una funzione fondamentale. Attivo è  e deve rimanere il 1500 che è importantissimo, tutti i numeri di salvaguardia, quelli che garantiscono le bombole di ossigeno, anche le assistenze dei gestori telefonici… lì si può magari pensare a lavorare da remoto. Ma ripeto, certi servizi di telemarketing non sono indispensabili in questo momento: per noi si dovrebbero mettere a lavorare da remoto, o procedere direttamente con la ferma.

Perché non per tutti i settori è stato previsto il lavoro da remoto?

Perché il settore non era pronto, e le infrastrutture nemmeno. Mi sto scontrando con aziende che vogliono andare in smartworking ma si trovano ad avere lavoratori che non hanno né l’adsl in casa né i pc. Si devono comprare e far spedire, con i ritardi che sono prevedibili in giorni come questi. È una catena che non si poteva fare dall’oggi al domani, non eravamo pronti per uno smartworking massivo, a parte i grossi gruppi. 

Di che numeri parliamo, nel settore?

In Italia gli operatori di call center sono circa 80.000, di cui tra i 7 e i 9.000 in Lombardia. Attualmente saranno in smartworking non più del 50% di loro. Ci sono poi tante differenze, basti pensare che ogni grande azienda ha la sua rappresentanza interna.

Avete paura?

Io per me stesso no, perché sono a casa. Però è ovvio che il pensiero c’è, siamo molto preoccupati. Per la tenuta economica e per la salute. I contratti a tempo determinato abbiamo dubbi che vengano rinnovati, mentre i licenziamenti non dovrebbero essere previsti. Però siamo preoccupati per le casse integrazioni: se si procederà, verranno pagate forse fra 3 mesi, e comunque è un problema per un lavoratore che in questo momento non può certo mettersi a cercare un’alternativa.

Richieste alle aziende e alla politica?

Il decreto grida vendetta: occorre distinguere le attività necessarie da quelle non necessarie. Andrebbe fatto con tempistiche certe anche riguardo ai pagamenti, alla cassa integrazione. E prima di tutto distinguere i tipi di servizio offerto: inutile far rischiare chi non offre un lavoro indispensabile.

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