Milano

Coronavirus. Ovvero il lavoro precario nella Milano che non fattura più

La salute si abbatte sull'economia e sul mercato del lavoro meneghino, più fragile di quanto si pensasse

di Francesco Floris per Affaritaliani.it Milano

C'è la boutique di via Manzoni, un piccolo marchio della moda italiana al femminile apprezzato sopratutto da turisti benestanti e da qualche sciura della televisione, che paga 30mila euro di affitto al mese per il negozio ai margini del quadrilatero della moda. E nelle ultime due settimane di euro ne ha fatturati solo 2mila. No cinesi, no russi, no arabi. Significa soltanto crollo verticale delle vendite. Ad aprile per alcune delle commesse doveva scattare il contratto a tempo indeterminato, il primo e agognato dopo dieci anni passati a cambiare lavoro ogni sei mesi fra Londra, Milano, Bruxelles, Amsterdam, Ibiza. Sempre nel settore. Ora Coronavirus cambia le carte in tavola e cosa potrebbe accadere non la sa proprio nessuno. La salute si abbatte sull'economia e sul mercato del lavoro meneghino, più fragile di quanto si pensasse.

Ma non tremano solo le piccole attività, i ristoranti o i pub che dopo l'appello al sindaco Giuseppe Sala hanno almeno ottenuto un'interpretazione più morbida delle ordinanze con la possibilità di restare aperti anche oltre alle 18 e il servizio al tavolo contato per il numero di coperti. Anche i giganti hanno, talvolta, i piedi d'argilla. Così una delle più importanti aziende italiane nel mondo vocata all'export, con decine di migliaia di dipendenti nel globo e un fatturato di oltre 9 miliardi l'anno, ma che settimana scorsa ha fatto meno 50 per cento di vendite in Cina. Dalla prossima vuole “incentivare” i dipendenti a prendersi le ferie e i permessi non goduti fino a quel momento. Sarebbe il primo caso di ferie in auto-quarantena. Nel frattempo sta andando alla grande lo smartworking, almeno un giorno a settimana. Ma si perdono i buoni pasto previsti dal contratto. E così nei supermercati che li accettano – con gli scaffali svuotati o meno – si paga cash. I lavoratori tremano al pensiero che escano notizie di cronaca riguardanti i loro luoghi di origine. In Brianza, nel comasco, in Isubria. Basta un lancio di agenzia sul “nuovo caso di Covid-19 a....” per essere lasciati a casa per sicurezza. È il protocollo rischi interno, comprensibile, ma meno per chi deve scegliere fra la salute pubblica e la spesa privata.

C'è un cameriere di un noto ristorante in zona Porta Venezia, contratto da 950 euro al mese, che qualche settimana fa si è infortunato ed è rimasto a casa. Pronto a rimettersi il grembiule e servire ai tavoli, ecco la sorpresa. I suoi datori gli avrebbero detto: “Prenditi malattia più tempo che puoi, almeno paga l'Inps”. Lui nel frattempo sta aspettando sul conto corrente anche la tredicesima del 2019, che ancora non è arrivata. Una stagista di un'agenzia di comunicazione in zona Lodi un mesetto fa ha deciso di lasciare la sua postazione nel coworking in cui ha sede l'azienda. Destinazione India, ad aprile, per un progetto umanitario di volontariato con rimborso di vitto, alloggio e voli aerei, attraverso un'associazione. “Un'esperienza” per una 26enne fresca di laurea, senza perdere il posto letto a Milano in viale Umbria (sub-affittato per tre mesi ad un amico appena arrivato a Milano in cerca di lavoro) e sopratutto l'occasione per scrollarsi di dosso un contratto di stage da 600 euro al mese, che dura da un anno, e la inchiodava all'esistente. Ma l'ambasciata di Nuova Dehli a Roma non vuole più sentire ragioni e dopo mille peripezie burocratiche ha chiuso i visti. E lei (e il suo amico subentrante in appartamento) si trovano entrambi con il cerino in mano. In questa fase c'è una paralisi anche nel mondo dei colloqui di lavoro e delle agenzie interinali. Tutti rimandano a data da destinarsi in attesa di capire in che acque economiche navighiamo.

C'è il caso di Airbnb (e indotto) che prima di Codogno teneva banco nella discussione pubblica italiana e meneghina. Le proposte dell'assessore all'urbanistica di Milano Pierfrancesco Maran, criticate dai proprietari milanesi, e gli emendamenti al Decreto milleproroghe per regolamentare le locazioni brevi – affossati nel giro di poche ore da Italia Viva con dura presa di posizione da parte di Luigi Marattin – avevano animato il gennaio 2020. Il 27 gennaio l'Associazione property managers scriveva: “L’introduzione a livello comunale di un limite al numero delle locazioni brevi ed alla loro durata costituisce un’invasione della libera disponibilità della proprietà privata costituzionalmente garantita”. Il 29 febbraio Stefano Bettanin, Presidente dell'associazione di categoria, dice a Repubblica: “Chiederemo un regime di moratoria: lo Stato congeli le tasse e si faccia garante nei confronti delle banche”. Nel frattempo i lavoratori che gestiscono check in, pulizie, cambi lenzuola e tutta l'attività logistica negli appartamenti stanno a casa. Perché le prenotazioni a Milano sono saltate allo stesso ritmo con cui venivano rimandate le varie fiere di queste settimane. Le società di gestione immobiliare ora confidano nell'intervento del governo e del settore pubblico, con una qualche forma di cassa integrazione, indennità, sussidio. Ma, spiegano due lavoratori, in busta paga c'è scritto 950 euro, mentre lo stipendio reale arriva fino a 1-300-1.400 anche 1.500 euro a colpi di straordinari e lavoro nei giorni festivi con maggiorazioni sul salario. Una quota aggiuntiva – quella che permette di vivere ai prezzi di Milano – che però, nel calcolo della cassa integrazione, ovviamente sparisce dai radar.








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