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Coronavirus e zone rosse: la vicenda di Alzano e di Nembro
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Coronavirus e zone rosse: la vicenda di Alzano e di Nembro

La campagna contro Regione Lombardia usa ogni argomento anche a dispetto di ogni ragionevole dubbio sulla difficoltà di individuare un nesso di causalità di rilevanza penale tra la decisione di non costituire un’altra “zona rossa” e il gran numero di decessi della Val Seriana.La cautela e l’equilibrio con cui viene condotta l’indagine dal Pubblico Ministero di Bergamo, le dichiarazioni felpate del Presidente del Consiglio e del Ministro della Salute, non impediscono alla loro tifoseria di richiamare una norma di oltre 40 anni fa (legge 833/1978) per tentare di scaricare ogni responsabilità sui vertici della sanità lombarda.

L’operazione è però possibile solo decontestualizzando quella legge da quanto è successo dal giorno della scoperta del primo caso Covid a Codogno di venerdì 21 febbraio alla chiusura dell’intera Lombardia di domenica 8 marzo e dell’intero Paese appena il giorno dopo, lunedì 9 marzo. Due settimane e tre giorni durante cui si sono delineati i modi con cui sarebbe poi stata gestita l’intera crisi. Leggendo quella legge del 1978 nel quadro dei provvedimenti adottati appena due giorni dopo l’inizio della crisi sanitaria, si arriva a conclusioni opposte di quelle a cui tenta di arrivare la tifoseria governativa. Se essa fosse rimasta l’unica fonte normativa del potere di altre autorità competenti a gestirla con ordinanze, la gestione della crisi sarebbe stata effettivamente “concorrente” con gli atti di Presidenti di Regione e di Sindaci.

La confutazione di quelle conclusioni parte dalle prime ordinanze con cui il Ministro della Salute emanò le sue prime indicazioni, arrivando a Milano venerdì pomeriggio, 21 febbraio, ancora prima che il primo tampone di Codogno risultasse positivo. Richiamata nelle premesse proprio quella legge del 1978, le sue prime ordinanze del 22 e del 23 febbraio erano a doppia firma dello stesso Ministro Speranza e del Presidente Fontana, non solo per una questione di garbo istituzionale. Invece, proprio la domenica 23 febbraio il Governo emanò un decreto legge (DL 6/2020) ed un primo Decreto del Presidente del Consiglio del Ministri (DPCM 23 febbraio 2020), con cui il paradigma fu rovesciato.

Con il combinato disposto di quei primi provvedimenti, si previde esplicitamente che le misure di contenimento e di gestione dell’emergenza epidemiologica - il cui perimetro era stato esteso rispetto a quello della legge del 1978 - fossero adottate “con uno o più decreti  del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro della salute, sentito il Ministro dell'interno, il Ministro  della  difesa, il Ministro dell'economia  e  delle  finanze  e  gli  altri  Ministri competenti  per  materia,  nonché  i Presidenti delle regioni competenti, nel  caso  in  cui  riguardino  esclusivamente  una  sola regione o alcune  specifiche  regioni,  ovvero  il  Presidente  della Conferenza dei presidenti delle regioni, nel caso in  cui  riguardino il territorio nazionale”. È pur vero che quello stesso decreto legge del 23 febbraio prevedesse la possibilità di emanare ordinanze di Presidenti di Regioni e Sindaci secondo l’ordinaria legge del 1978, ma solo “nelle more dell'adozione dei  decreti del Presidente del Consiglio dei ministri”. Ma quali sarebbero state queste “more” nell’adozione dei DPCM, se dal 23 febbraio al 9 marzo furono emanati 5 DPCM (DPCM 25 febbraio; DPCM 1 marzo; DPCM 4 marzo 2020; DPCM 8 marzo; DPCM 9 marzo) con cui il Governo arrivò a far diventare “zona rossa” tutta l’Italia?

Ai fini di delineare una possibile matrice delle responsabilità, il DPCM più significativo è quello di domenica 1 marzo 2020 che anticipa il famoso verbale del CTS del 3 marzo e la lettera di Brusaferro del 5 marzo. Con quel DPCM, fu confermata la “zona rossa” dei 10 comuni lombardi e di Vò del Veneto istituita con il DPCM della domenica precedente. Ma furono anche previste altre misure restrittive, concentriche ma differenziate per l’intera regione Lombardia e soprattutto per le province di Bergamo, Lodi, Piacenza e Cremona. Il territorio lombardo fu così diviso in tre parti su alcune delle quali vigevano concomitanti misure. La Lombardia divento una specie di matriosca, che la semplificazione giornalista illustro cromaticamente: l’intera Regione diventò “zona gialla”; le province di Bergamo, Lodi, Piacenza e Cremona diventarono “zona arancione”; i dieci Comuni del lodigiano restarono “zona rossa”.

È quindi evidente che già quella domenica primo marzo Palazzo Chigi disponeva di notizie che determinarono la decisione di costituire una differenziata “zona arancione” per l’intera provincia di Bergamo. A queste informazioni si aggiunse poi il verbale del CTS di mercoledì 3 marzo, che giustifica l’escalation di attenzione di quei giorni verso quel territorio che portò persino a muovere l’esercito già pronto a presidiare militare della chiusura della zona.

Giusto il giorno dopo il verbale del CTS del 3 marzo, fu emanato un altro DPCM (4 marzo) che precedette di soli 3 giorni l’annuncio del Presidente Conte “a rete unificate”, nella sera di sabato 7 marzo, di chiudere tutta la Lombardia, evitando così di costituire altre “zone rosse” e dissolvendo la prima degli 11 Comuni, individuati con il DPCM del 23 febbraio. Il DPCM fu emanato il giorno seguente lasciando così il tempo dell’assalto notturno a tutti i treni in uscita dalla regione, provocando la sollevazione dei Presidenti delle altre Regioni, la cui pressione fu tale da determinare la chiusura dell’intero Paese appena il giorno successivo della chiusura della Lombardia, lunedì 9 marzo.

Anche i provvedimenti successivi confermano l’impostazione iniziale di gestire la crisi con provvedimenti governativi, relegando le Regioni ad un ruolo di risulta non solo politica. La giusta ricostruzione di quanto accaduto non dovrebbe essere esigenza di una parte. Piuttosto dovrebbe essere comune necessità quella di consegnare i fatti alla giusta ricostruzione storica, quantomeno per evitare di doverla rivivere allo stesso modo.

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