Milano

Davide LaChapelle al Mudec di Milano: tra misticismo e fuga dal mondo

Federico Ughi

Al Mudec di Milano oltre novanta opere del fotografo statunitense: una selezione che testimonia la ricerca spirituale dell'artista

Davide LaChapelle al Mudec di Milano: tra misticismo e fuga dal mondo

Che l'idolatria verso attori, cantanti e personaggi dello show-business avesse sostituito a molti livelli della nostra cultura la devozione tradizionalmente riservata a santi e protagonisti dei testi sacri è qualcosa che aveva già perfettamente compreso Andy Warhol. David LaChapelle, i cui primi passi avvennero nella New York di inizio anni Ottanta proprio sotto l'ala del Maestro della Pop art, suggerisce una sostanziale chiusura del cerchio sottoponendo soggetti e temi di carattere religioso al processo di euforica, post-moderna glamourizzazione che costituisce il tratto distintivo dei ritratti di vip che lo hanno imposto come uno dei fotografi più influenti degli ultimi quaranta anni.

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David LaChapelle: "I believe in miracles"

E' questo uno dei possibili file rouge della mostra "I believe in miracles", ospitata sino all'11 settembre al Mudec di Milano e curata da Denis Curti e Reiner Opoku. Una selezione di oltre novanta opere del fotografo che testimoniano l'evoluzione del rapporto di LaChapelle con la religiosità, il trascendentale e con l'iconografia cristiana in particolare, dalle provocazioni edoniste di fine anni Ottanta sino agli anni recenti in cui sembra maturare una tensione più intimista. Nel mezzo, la stagione della perfetta sovrapposizione dei due universi - idoli pop e culto cristiano - in cui LaChapelle allestisce i suoi preziosi set fotografici facendo rappresentare a celebrities come Courtney Love o Kayne West rispettivamente la Pietà della Vergine Maria e la Passione di Cristo. La figura di Gesù - l'icona per antonomasia - è centrale del resto nel ciclo di inizio anni Duemila "Jesus is my Homeboy", in una New York notturna e onirica in cui gli apostoli hanno le sembianze di membri di una gang di quartiere.

Ma è da almeno un quindicennio che nel rapporto tra LaChapelle e immaginario cristiano si è insinuata una diversa consapevolezza. Le irriverenti riletture e le trasfigurazioni pop diventano anche altro e lasciano trasparire - sotto la superficie levigata, glam e leggera - inquietudini e tensioni. Perchè se LaChapelle crede nei miracoli, è altrettanto vero che sono le apocalissi ad ossessionarlo. Il Diluvio è lo show definitivo, un disaster movie che non può che esercitare un forte fascino su uno spirito così sensibile al drama ed agli effetti speciali. Ma non è solo il potenziale spettacolarizzante e metaforico ad interessare l'artista, spinto da riflessioni più concrete. LaChapelle pare avvertire il grande cataclisma come una ipotesi concreta, e nello specifico una minaccia innescata dall'uomo. Da questa sensazione nascono visioni come "Gas: shell", una stazione di servizio incongruamente immersa nella giungla,  o "Spree", con una nave da crociera ancora illuminata come una grande discoteca ma disperatamente incagliata tra i ghiacci. Modelle che si aggirano tra città in macerie, risse tra vetrine di negozi in fiamme, jet privati che hanno perso la rotta in cieli fosforescenti, enormi hamburger e lattine di Coca-cola che piovono dal cielo portando distruzione sono immagini surreali e camp come ci si aspetta dall'artista, ma ne appare evidente anche l'afflato profetico.

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La scoperta delle Hawaii e la fuga dalla società del consumismo

Chiave di volta di questo nuovo sguardo critico pare essere la scelta di LaChapelle di trasferirsi alle Hawaii. Un Paradiso da preservare, un Eden che, in particolare dagli anni immediatamente precedenti la pandemia Covid, è divenuto per l'artista ideale set di un nuovo ciclo di ispirazione apertamente religiosa. Opere come "The holy family with St. Francis", "Our lady of the flowers", "The Crucifixion", oltre a testimoniare l'attento studio dei maestri rinascimentali da parte del fotografo, vedono una natura rigogliosa e lussureggiante reclamare un ruolo da protagonista, e sostituirsi ai tradizionali scenari metropolitani, ai set degli studi traboccanti di oggetti, prodotti, gadget, simulacri dell'umano. Sino al sorprendente approdo a fotografie di puro paesaggio, e a ritratti di alcune delle magnifiche piante esotiche che prosperano nel piccolo arcipelago del Pacifico.

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E si sarebbe così quasi portati a pensare che il miracolo atteso e profetizzato da LaChapelle potrebbe non rivelarsi  una buon novella per quella umanità consumistica, vorace e narcisista di cui persino il fotografo statunitense sembra essersi stancato.

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