Milano

È il “Rosenkavalier” di Kirill Petrenko

Francesco Bogliari

L'opera di Richard Strauss alla Scala: straordinaria interpretazione del direttore russo-austriaco, al suo debutto operistico nel teatro milanese

È il “Rosenkavalier” di Kirill Petrenko

Il vostro cronista c'era, alla Scala, la sera del 5 settembre 2016, quando Kirill Petrenko, alla guida della Bayerisches Staatsorchester, fece la sua prima (e finora unica) apparizione nella sala del Piermarini: fu come aver infilato le dita nella presa di corrente, tanto forte fu la scossa elettrica che ne derivò: una “Sinfonia Domestica”, più i “Vier Letzte Lieder” (cantati da Diana Damrau) di Strauss e un preludio dei “Meistersinger” di Wagner da togliere il fiato.

E abbiamo ripreso di nuovo la scossa, ancora più forte se possibile, in queste sere di mezzo ottobre, quando Milano è autunnale e malinconica come la Vienna che Richard Strauss e Hugo von Hofmannsthal disegnano nel loro capolavoro: “Der Rosenkavalier” (“Il Cavaliere della rosa”). Chi scrive ascolta/vede quest'opera da quasi mezzo secolo, non dovrebbe più avere niente da scoprire. Eppure questa volta ha scoperto nuove “inaudite” meraviglie.

Il merito è di Kirill Petrenko, cinquantaduenne musicista siberiano trasferitosi con la famiglia in Austria al momento del crollo dell'Urss e lì cresciuto in una silenziosa gavetta fino all'esplosione a Monaco di Baviera e la consacrazione “urbi et orbi” con la chiamata alla direzione dei Berliner Philharmoniker nel 2019.

Una deformazione caricaturale tecnicamente miracolosa

Avevamo visto questa stessa produzione (regia di Harry Kupfer) alla Scala già nel 2016, sotto la direzione elegante e malinconica di Zubin Mehta, ma è la prima volta che sentiamo un “Rosenkavalier” in cui la componente comica non è la “sorella minore”, ma ha pari dignità con quella elegiaca e intimista. Anzi, per dirla tutta, è proprio la parte “commedia”, quella grottesca, parodistica, beffarda, ironica e autoironica, paradossale della partitura (e ovviamente del libretto – perché nel “Rosenkavalier” è talmente perfetta la fusione fra testo e musica che si fa fatica a parlarne separatamente) ad apparirci in una luce del tutto nuova. Una rivelazione prodigiosa, la Via di Damasco di noi fortunati presenti. È questo Richard Strauss: la melodia inizia e subito crolla su se stessa, si frantuma in un pulviscolo di cellule sonore; il tema ritorna distorto, frammentato, si nasconde e poi riappare all'improvviso come parodia. I valzer sghembi, collassati, ubriachi... È la deformazione caricaturale il senso profondo di questa partitura, tecnicamente miracolosa, che profuma di “Till Eulenspigel” e “Don Quixote” e ci ricorda che comunque in quegli anni era al lavoro un altro genio della distorsione grottesca, Gustav Mahler.

Il gesto direttoriale impeccabile di Petrenko e una orchestra scaligera in stato di grazia

Ma poi, ovviamente, c'è tutto quanto non è “commedia”: il duetto iniziale intriso di eros; il monologo sul tempo; il finale del primo atto; la presentazione della rosa e quello che ne segue; il terzetto e il duetto finale del terzo atto. Tutto ciò che sta nel territorio del “sublime” e che definisce quello che molti di noi intendono per “civiltà”.

Gesto direttoriale chiaro, forte, elegante quello di Petrenko (al debutto operistico nel teatro milanese), carismatico senza alcuna traccia di quel narcisismo che a questi livelli è molto frequente. Le movenze della sua mano sinistra sono poesia magica. Mai a nostra memoria l'orchestra scaligera aveva suonato in maniera così perfetta, e sì che di grandi e grandissimi direttori ne abbiamo visti passare a decine su quel podio; e sì che questa orchestra negli ultimi anni ha raggiunto livelli di assoluta eccellenza. Compagine in stato di grazia, scintillante, padrona di tutti i colori e di tutte le profondità e levità di questa incredibile partitura.

Petrenko entra nella Trinità dei grandissimi del “Rosenkavalier” con von Karajan e  Kleiber

Ci sono stati momenti di gloria anche per strumenti cosiddetti “minori”, come il corno di bassetto, il corno inglese (peraltro esaltato in quegli anni anche da Mahler) e il basso tuba: quest'ultimo, insieme ai tromboni, ha più volte gridato la sua irrisione al mondo. E invece, che sublime armonia quando clarinetto e oboe disegnavano i momenti più raccolti e malinconici. E quando l'ottavino si univa agli archi nelle note alte sussurrate. E quando celesta e arpa prima segnavano il battito del tempo, mentre la Marescialla fermava gli orologi, e poi accompagnavano dal paradiso l'estasi amorosa dei due giovani. E le trombe, che prima graffiano, irridono, poi nel finale ultimo regalano la luce calda del golden moment. E il tripudio irridente dei tanti “strumentini” del settore percussioni? Il tamburello, il trick track, le nacchere... Tutti attori protagonisti, nessun comprimario. Definitivo: Kirill Petrenko entra a far parte della Trinità dei grandissimi – ciascuno a suo modo – interpreti del “Rosenkavalier”, affiancando Herbert von Karajan e Carlos Kleiber.

È inevitabile che tutto il resto passi in secondo piano. Lo spettacolo, creato dal compianto Kupfer per Salisburgo e dato qui alla Scala già nel 2016, è stato ripreso da Derek Gimpel. Scene in bianco e nero basate su grandi fotografie di Vienna: il Prater, le cupole delle chiese e dei palazzi monumentali; costumi coevi di Strauss e Hofmannsthal. Per fortuna non c'erano gli arredi rococò della edizione von Karajan, oggi inguardabili. Regia sobria, elegante, con qualche idea geniale, come quella di trasformare il “kleine neger” del testo originario in un “semper nègher”, come direbbe il Milanese Imbruttito, ma non più “kleiner”, bambino, bensì giovane e aitante. Probabilmente il prossimo amante di una contessa a cui piacciono belli e sotto i vent'anni... L'ha scritto in una acutissima recensione Pierachille Dolfini: “La Marescialla oggi sarebbe su Tinder. Senza dubbio. Bichette Wien il possibile nickname” (chi volesse leggere l'articolo per intero lo trova QUI.

Il cast: Groissböck fuoriclasse anche nella recitazione

Veniamo al cast vocale. Günther Groissböck sta a Ochs come Ferruccio Soleri stava ad Arlecchino, come Ambrogio Maestri sta a Falstaff (del resto, anche Ochs nella commedia viene gabbato, come il vecchio cavaliere inventato da Shakespeare, solo che lui è un autentico cialtrone, a differenza di Falstaff che è un tenero sbruffone). Il basso austriaco è padrone di uno strumento vocale importante per volume, colore e vigore – per quanto leggermente usurato dagli anni – e questo basterebbe a noi spettatori per lasciare il teatro contenti dopo oltre quattro ore di spettacolo. Ma dove si rivela un assoluto fuoriclasse è nella recitazione. È talmente padrone del personaggio da far supporre che Hofmannsthal abbia scritto la parte del barone pensando che un giorno sul palcoscenico ci sarebbe stato lui! Quando dovesse smettere di cantare potrebbe fare l'attore di prosa.

Stoyanova conquista, Devieilhe è deliziosa


Krassimira Stoyanova era già stata Marchallin nell'edizione scaligera del 2016, e allora ci aveva lasciato un po' indifferenti, come nella “Ariadne auf Naxos” del 2022. Adesso invece siamo rimasti conquistati dalla intensità e luminosità del suo canto, dall'eleganza e aristocrazia della presenza scenica: una donna che riflette nel profondo sul senso dell'esistenza ma è al contempo forte e volitiva e capace di guidare con pugno di velluto i vari intrecci della commedia, facendo rigare dritti tutti i maschi in scena, giovani, maturi o vecchi che siano.

 

Per Sabine Devieilhe c'è solo un aggettivo, deliziosa, che potrebbe sembrare sminuente e invece non lo è. Il soprano francese è fonte di gioia e, appunto, di delizia, con la sua voce piccola ma miracolosamente armoniosa. Un gradino sotto gli altri Kate Lindsay, Octavian, un po' fissa sugli acuti, ma nel complesso all'altezza di questa produzione stellare, come l'ottimo Faninal di Michael Kraus e tutte le numerose parti minori. Per il cameo del Tenore, forse ci sarebbe voluto più un belcantista che un verdiano come Piero Pretti; ma sono dettagli ininfluenti.

Un Miracolo con la M maiuscola

Il vostro cronista ha visto tre volte questo spettacolo. Tre angolazioni diverse che gli hanno permesso di assistere nella maniera più completa all'epifania di questo miracolo musicale. Anzi, togliamo, il musicale: miracolo e basta. Anzi, Miracolo, con la M maiuscola, come avrebbe detto Massimo Troisi.

Recensione basata sulle recite del 14, 19 e 25 ottobre.
 







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