Milano

Grandi chef di Milano: “Ultimi a riaprire. Futuro è nel sovranismo alimentare"

di Francesco Floris per Affaritaliani.it Milano

I ristoranti saranno probabilmente tra gli ultimi a riaprire e non sarà facile far tornare i conti, come anche abituarsi a nuovi metodi di lavoro

I Grandi chef di Milano: “Ultimi a riaprire. Il futuro è nel sovranismo alimentare"

Claudio Sadler boccia gli interventi del governo sui crediti alle piccole e medie imprese e chiede “liquidità immediata” per tutti i rami del settore, dalla ristorazione al catering. E aggiunge che se “la globalizzazione e la facilità dei trasporti ci hanno messo nella condizione di avere gli astici del Maine, le capesante dell'Atlantico, il salmone della Scozia con estrema facilità, ora è giusto e etico ridare vita ai prodotti del territorio”. Per chef Cesare Battisti “un mondo nuovo, da ristrutturare”, fatto anche di “esercizi di stile su asporto e delivery, con un piatto finto, solo nelle vicinanze, rivendendo il prezzo” anche nell'alta cucina. E magari “internalizzando il servizio con i propri dipendenti per mantenere l'occupazione”. Vittorio Borgia parla di “decisioni politiche” da prendere come Paese sul cibo e le filiere agricolo-alimentari e di “formazione dentro l'azienda per i lavoratori”. Che se in una situazione normale si fa in house, invitando i produttori a un confronto che vada oltre l'operatività di una cucina o di una sala, “oggi è attiva ogni pomeriggio con due o tre ore di collegamento online e corsi sui manuali Haccp, il servizio, la cucina, prodotti e produttori”. Un modo per “tenersi vivi, perché stare a casa in una situazione di incertezza senza fare nulla può essere difficile per chiunque di noi”. Chef Eugenio Boer, nonostante il sangue per metà olandese e che proprio per questo definisce “il mio Paese il mondo”, decide di “tagliare tutto ciò che non arrivi dall'Italia. Non per ghettizzare ma per concentrarsi sul territorio perché non potremo uscire, non potrò andare a vedere quella nazione della quale mettere un influsso dentro al piatto. Adesso è arrivato il momento della concretezza e della conoscenza di ciò che già abbiamo perché il resto non potremo averlo per X tempo”.

In mezzo a riflessioni e ragionamenti sul futuro, si fanno spazio le paure immediate per la tenuta economica del comparto di fronte al blocco forzato e prolungato dell'attività. Anche a Milano, sopratutto a Milano. Nella città che dall'Expo del 2015 ha visto crescere il settore del “food” in maniera esponenziale – in quella che alcuni hanno definito una vera e propria “bolla” – per chi crede nel destino i primi segnali di lockdown già a febbraio: il 24 del mese dovevano partire le registrazioni di Masterchef, il programma cult si Sky dedicato alla cucina e agli aspiranti cuochi. Rinviate al 2 marzo. Poi saltate completamente, garantendo ai lavoratori della televisione che quando ci saranno le condizioni il programma si farà. Quasi un'anticipazione di cosa sarebbe successo all'economia reale del food nemmeno una settimana dopo.

Ora Tutti concordano: “Saremo gli ultimi a riaprire” dicono ad Affaritaliani.it Milano. “Al 30 per cento del fatturato” avverte Cesare Battisti, classe 1971, dal 2009 con la sua creatura “Ratanà” nel cuore del quartiere Isola-Porta Nuova, e segretario generale dell'associazione “Ambasciatori del Gusto” che assieme ad altre 18 realtà associative ha presentato al governo sette misure essenziali per far passare la mareggiata: sospensione di leasing e mutui, cancellazione imposte nazionali e locali, accesso al credito senza interessi, proroga della cassa integrazione per una parte del personale fino a fine anno, voucher, incentivi per chi non licenzia o assume e una misura sugli affitti dei locali. Quanta autonomia rimane al settore, nella Milano sigillata del Covid-19? “Una volta che interrompi i flussi di cassa, che sono giornalieri, in questo comparto le aziende non hanno tempo di vita” spiega Battisti “perché non vantano crediti da riscuotere in futuro”. “Chi ha lavorato bene nel passato e ha una struttura alle spalle può reggere un mese, un mese e mezzo” gli fa eco l'imprenditore Vittorio Borgia di Bioesserì, Baunilla e altre realtà che complessivamente contano cento dipendenti. Perché c'è anche il nodo sociale dell'occupazione: “Erodendo tutta la liquidità che in questo momento vi è nelle casse delle varie società si possono pagare i dipendenti fino a quando hanno lavorato, 9-10 marzo. Quindi deve intervenire presto l'Inps con cassa integrazione e Fondo Fis perché parliamo di persone che vivono di stipendio, in affitto e che fino al mese scorso per il mestiere che praticano di fatto non avevano costi o esborsi per mangiare. Chi ha qualche risparmio può resistere almeno il mese di aprile ma se non entrano subito i soldi saranno costretti a chiedere aiuto ai genitori, lasciare le case e tornare dalle famiglie”.

Dopo i lavoratori ci sono i fornitori. Che vanno pagati “a 30 giorni per le materie prime fresche e a 60 giorni per quelle a più lunga reperibilità” dice chef Claudio Sadler, una stella Michelin con una delle sue attività da sommare alla società di catering che dal 22 febbraio ha fatto ovviamente zero euro, e presidente dell'associazione “Le Soste” affiliata alla Federazione Italiana Pubblici Esercizi. Suo il giudizio più duro su quello che è stato presentato come il “bazooka” del governo Conte bis per salvare le pmi: la manovra da 400 miliardi con prestiti a garanzia pubblica. Non è un problema di importi. Ma di tempi. “Troppo lunghi e l'emergenza è qui di fronte a noi. Non possiamo aspettare tre mesi un finanziamento a tasso agevolato allo 0,5 attraverso Sace, a cui probabilmente le banche aggiungeranno qualcosa”. Chi può infatti si muove in proprio da subito. Con il suo istituto di credito magari forte di un rapporto decennale e del fatto che una catena di fallimenti danneggerebbe anche il settore bancario su sofferenze e crediti deteriorati. L'attività di recupero successiva è lunga e il “patrimonio immobiliare di un ristorante non è così goloso, quindi verranno incontro ai loro clienti e attueremo dei finanziamenti diretti senza aspettare garanzie pubbliche vendute come epocali ma che di epocale hanno ben poco”.

Fin qui le note dolenti. Ma questo è anche “un tempo di riflessione per il futuro” ragiona il proprietario del Ratanà. A cominciare dagli addetti ai lavori di base, come i camerieri. Alberto Bonanni, capo sala dell'Antica Trattoria della Pesa, storico locale di cucina milanese in zona Baiamonti, approfitta delle settimane di inattività forzata per frequentare online il corso della Bocconi di “Food and Beverage Marketing”. Un cameriere di uno stellato in zona Porta Venezia chiude online la frequentazione del suo master nel settore all'Università Bicocca che ha previsto anche un periodo di tirocinio in Cascina Cuccagna. “Abbiamo aperto confronti con le università – dichiara Cesare Battisti – e per esempio la nostra addetta del marketing sta facendo un corso dietro l'altro. Stiamo strutturando con gli atenei riflessioni su come potrebbe essere il lavoro del futuro in uno scenario plausibile. È un tempo prezioso in cui si riflette anche su ciò che si vuole fare nella propria vita”.

Operativamente dovrà cambiare il lavoro anche in un'ipotetica riapertura dalla seconda metà di maggio. Distanziamento sociale – come è stato nelle ultime settimane pre-chiusura –, dispositivi di protezione individuale per lavoratori, igienizzanti per i clienti, riforme nelle modalità di lavoro in brigata in cucina. “ Ci devono essere delle regole però attuabili nel nostro comparto” dice Vittorio Borgia”. “La distanza di un metro per un mese e mezzo-due mesi, combinata con qualche lavoratore in cassa integrazione e la liquidità che ci viene data, ipotizzando un periodo fino ad agosto che è l'orizzonte temporale che mi sono dato, è fattibile”. “Ma qui – aggiunge concordando con tutti i colleghi sentiti da Affaritaliani.it Milano – non siamo in Cina o in Corea, con i tavoli dove i commensali vengono separati dal plexiglass. Queste cose non potranno esistere e se ci vengono imposte io stesso non riapro e aspetto che finiscano”. “Perché ci sono zone del mondo dove il cibo o il ristorante è sinonimo di nutrirsi e cibarsi, da noi è convivialità e socialità e quindi con regole troppo stringenti saranno i clienti a non voler venire”. “Ci stiamo attrezzando sul discorso gel igienizzante per i clienti, mascherine per il servizio e guanti monouso, anche il termometro che tuttavia sarà difficile da gestire concretamente”. “La mia fortuna è di avere ristoranti grandi dove sicuramente avrò un impatto, nello scenario migliore del meno 50 per cento, ma noi possiamo comunque distanziare i tavoli. Mi rendo conto che ci sono tante attività a Milano che hanno 30 o 40 posti a sedere, osterie, trattorie e che ovviamente se devono mettere due metri tra un tavolo all'altro significa fare otto coperti a serata. Equivale a dirgli di chiudere”. Già, non sarà una ripartenza uguale per tutti. “Soffriranno di meno i ristoranti di gamma più alta e vorrei che non fosse così – ragiona chef Eugenio Boer, titolare assieme alla moglie del “Bu:r” di via Mercalli, anche lui affiliato agli “Ambasciatori del Gusto” –. Ma se devo fare una riflessione logica credo che i locali di “fine dining” saranno quelli che anche a livello di concetto rivedranno prima la clientela, per i tavoli grandi, distanziati. Svendersi non servirà. Piuttosto incentivare le persone con delle formule per riacquisire la fiducia nell'uscire e sul passare una serata fuori. Inizialmente sarà questo: la coppia che è stata a casa per due mesi che uscirà a cena fuori, tanto tavoli più grandi di quattro persone non si potranno allestire”.

E infine l'ultimo nodo. Quello più di scenario globale. Il rapporto con la filiera produttiva, agricola, di allevamento. In un mondo che già dava segni di de-globalizzazione prima della crisi sanitaria (si pensi alla guerra dei dazi) oggi potrebbe vedere una battuta d'arresto o un rallentamento più pesante e strutturale sul commercio internazionale. Lo chiama “sovranismo alimentare” chef Cesare Battisti. “Questi mesi ci devono permettere di riorganizzare un futuro più sostenibile e rispettoso, specialmente in agricoltura. Non è normale che il cibo al mondo lo producano in sei o sette nazioni che fanno viaggiare gli aerei verso il resto del globo. È una bolla che prima o poi deve scoppiare. Popolazioni intere che sono totalmente schiave e importano il 90 per cento del cibo senza sfruttare le proprie risorse, è semplicemente una cosa che non ha una logica in nome di un profitto ridicolo, per il semplice motivo che non può reggere a lungo”. Meno tranchant Vittorio Borgia ma sulla stessa falsa riga. “Gli equilibri globali cambiano se si sfruttano le opportunità che la situazione offre: alcuni prodotti siamo in grado di farli anche noi, non dico a costi uguali ma quasi e a qual punto l'ortaggio dal sud America o il pinolo dalla Cina non ha tutta questa ragione di esistere. Ricordiamoci però che non avviene in automatico il riequilibrio globale, è una decisione politica”.







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