I Hate Milano
20 Starbucks si mangiano Milano. La colonizzazione è alle porte
I soliti radical d'accatto pensavano che il super caffè di Cordusio fosse un modo per lanciare Milano nel mondo. E invece è Starbucks che si è mangiata Milano
Ai tempi dell’apertura del primo Starbucks avevamo commentato l’evento con malinconia: che tristezza vedere una città con la storia e il prestigio di Milano mettersi in ghingheri per l'apertura di un fast food del caffè!
Era una cosa che avevamo visto solo nella Mosca del 1991, quando subito dopo la caduta del muro, durante l’apertura del primo Mc Donalds, un ragazzo morì travolto dall’entusiasmo della folla. Quel gasamento generale per un evento che una città davvero internazionale avrebbe considerato insignificante, era per noi il simbolo di una resa, la certificazione di uno stato di provincialismo talmente evidente da risultare invisibile a chi lo subisce.
Come al solito, l’intevento ha suscitato la reazione rabbiosa dei soliti “milanesi d’adozione”, quella gente che non ha la più pallida idea della Storia e della tradizione di Milano, e che – dipendesse da loro - la città diventerebbe immediatamante, come già sta diventando, un grande centro commerciale senza uno straccio di anima o personalità.
Davanti ai nani e alle ballerine ingaggiati dagli uffici stampa, ci permettavamo di fare notare come l’operazione sapesse di patacca lontano un miglio. Il primo negozio poteva anche essere una torrefazione di lusso, un tempio del gusto come solo a Shangai: ma da li in poi avremmo assistito ad un’invasione di punti vendita tutti uguali, esattamente come accaduto ai tempi con Mc Donald’s. Ora arriva la notizia che Starbucks sta preparando l’apertura di altri venti punti vendita in città. Stavolta non ci sono miscele esclusive o spettacoli in piazza ad indorare la pillola, stavolta c’è solo l’arrivo di una multinazionale straniera che si prepara a colonizzare un nuovo territorio senza fare prigionieri. Intendiamoci: i discorsi dei Sovranisti di Neanderthal alla Fusaro, quelli che si vantano di mangiare e bere italiano davanti a una tavola imbandita senza nemmeno sapere che i prodotti che mangiano provengono da multinazionali straniere, ci fanno ridere. Quello che intendiamo criticare qui, al riparo dalle semplificazioni lobotomizzanti cui i social ci hanno abituato, è il clima di esaltazione generale: quella insopportabile mentalità di retroguardia per cui l’insegna di Starbucks non è solo l’insegna di una catena di bevande a buon mercato - ma una certificazione di modernità. Come se Milano, adesso che ha Starbucks, sia diventata più moderna e più internazionale. Milano, per crescere, ha bisogno di tutto tranne che di fast food. Ha bisogno di idee, di leggi speciali, di incubatori, di sostegno a chi fa impresa. Di mettersi alla guida del Paese, magari, e cominciare ad esportare eccellenze.
Qualcuno riesce davvero ad immaginarsi i cittadini di Parigi esultare per l’arrivo di una cinquantina di posti di lavoro da baristi presso un fast food americano? E infatti, all’estero succede l’esatto contrario.
A New York, Starbucks è ritenuta tra i principali responsabili di quel processo di omogenizzazione culturale che ha quasi completamente distrutto l’aura di magia che circondava la Grande Mela e che conferiva ad ogni quartiere la propria unicità (il libro “Vanishing New York”, un vero e proprio caso editoriale, lo racconta nel dettaglio – per chi fosse interessato ai fatti).
Un processo in atto ovunque, diretta conseguenza del neo-liberismo, contro cui città come Parigi o Barcellona stanno cercando di correre ai ripari e che invece noi – con il nostro provincialismo – siamo qui ad accogliere a braccia aperte, come se ancora fossero gli anni ’90. Un tempo Corso Vittorio Emanuele era “la piccola Broadway”, il salotto dei milanesi con i cinema e teatri aperti fino a tarda sera. Adesso che franchising e multinazionali imperversano – recentemente ha aperto pure Five Guys, altra mangiatoia a stelle strisce di patatine fritte e hamburger a buon mercato - dopo le 20 è un deserto interrotto solo dai sacchi a pelo dei senza tetto (peraltro in continuo aumento).
Questo, secondo noi, è il segno di un declino economico, sociale e culturale che continueremo a denunciare, rifiutandoci di considerarlo irreversibile.
Con buona pace dei Gollum da social network che, mentre tutto intorno crolla, in fila da Starbucks, stringono il loro frappuccino urlando “il mio tesssoro!’. Chissà che risate si fanno i turisti nel vederli.