I Hate Milano
Coronavirus: in morte di un amico geniale. Covid, le bugie e Olan Montgomery
Siamo nel mezzo della più grande sciagura dalla Seconda Mondiale in poi e qualcuno la tratta come fosse una questione di PIL
Coronavirus: in morte di un amico geniale. Il Covid, le bugie e Olan Montgomery
"Accoronati", la nuova rubrica di Affaritaliani.it Milano. Di Francesco Francio Mazza
A proposito di quelli che il COVID-19 colpisce solo gli anziani, che col virus ne faranno un ciondolo e soprattutto alla faccia di quegli stronzi che ogni giorno leggono i dati sulle vittime come fossero numeri del lotto e trattano la più grande sciagura dalla Seconda Mondiale in poi come fosse una questione di PIL o, peggio, un modo come un altro per attaccare l’avversario politico di turno, ho scoperto ieri che a New York il coronavirus si è portato via uno dei miei migliori amici.
Olan Montgomery, anni 56, di professione attore (Broadwalk Empire, Stranger Things 3, The Irishman, e tantissimo altro), stroncato dal virus dopo 26 giorni di terapia intensiva.
Niente è triste come leggere il profilo Facebook di una persona scomparsa, e quello di Olan non fa eccezione.
Il 3 marzo, una settimana prima che Trump twittasse che il coronavirus era meno grave di un’influenza, Olan si chiede come sia possibile sapere quanti sono i casi reali di COVID-19 se i pazienti con sintomi influenzali vengono rimandati a casa, senza nemmeno fare il tampone.
Sta evidentemente parlando per esperienza personale, ma in quei giorni gli americani – non solo il Presidente – considerano la pandemia un fatto lontano, tanto che un sondaggio dice che solo il 20% dei cittadini si definisce “seriamente preoccupato”.
Pochi giorni dopo viene ricoverato al Long Island Jewish Medical Center: nel giro di poche ore entra in un lungo coma farmacologico, in bilico tra la vita e la morte, mostrando quel coraggio e quella voglia di lottare che ne avevano caratterizzato tutta l’esistenza.
Perché Olan Montgomery non era un attore come gli altri, e soprattutto non era stato come gli altri il suo destino.
Era una delle figure mitologiche di quella New York vecchio stile immortalata dai tanti film senza tempo della nostra infanzia.
Si era trasferito nella Grande Mela dal sud della Georgia per fare il truccatore, senza soldi e senza conoscenze, eppure in pochissimo tempo era riuscito a imporsi in un settore - quello della moda e dello spettacolo degli anni ’80 - che a quei tempi, a New York, viveva una fase di fermento leggendaria.
Camminare con lui a Chelsea era un’esperienza indimenticabile: ad ogni incrocio ti raccontava uno dei suoi aneddoti, “Li prima c’era un bar dove mi ubriacavo con Blondie!”, “lo vedi quel locale? Prima c’era una discoteca, nell’88 ho visto George Michael e...”.
Non sapevi se erano storie vere o meno, sapevi solo che saresti stato ad ascoltarlo per ore.
Ovviamente, una personalità così creativa non poteva occuparsi solo di make up, e così Olan prima diventa artista figurativo – ricevendo l’onore di una recensione di una sua mostra sul Village Voice, la Bibbia della controcultura newyorkese di quei tempi – e poi attore.
O meglio prova a diventare attore, perché diventare attore di successo negli USA, a New York, a 40 anni, è una mission più impossibile di quelle dei film di Tom Cruise. Eppure Olan non si lascia intimorire: frequenta corsi, seminari, lezioni private, cerca di apprendere come può la professione che ha sempre sognato.
Io lo conosco il 7 dicembre 2013, temperatura esterna meno venti gradi centigradi, lui si presenta puntualissimo e pieno di entusiasmo, alle 7 di mattina, prima di tutti, per girare una scena senza senso di una studentessa ricca e svogliata.
Ho la fortuna di dirigerlo due volte, la prima per un film studentesco, la seconda per il mio corto Frankie che poi conoscerà qualche successo. Diventiamo amici, condivido con lui anni difficili per entrambi: soldi pochi, opportunità zero, ma è proprio guardando la sua capacità di tirare dritto e rimanere impermeabile alla cattiveria e al cinismo delle persone che trovo le motivazioni per andare avanti a mia volta.
Si iscrive allo UCB, la fighettissima scuola di improvvisazione, e per farlo si indebita in modo mostruoso. L’esperienza è un disastro, a scuola gli altri ragazzi lo prendono di mira perché è vecchio, grasso e omosessuale ma lui se ne frega. Va avanti, facendo affidamento sulle vecchie conoscenze del mondo della moda per campare, reinventandosi fotografo di modelle.
Poi alla fine del 2018 mi telefona, dalla sua voce capisco che è accaduto qualcosa di grosso. Mi dice che è andato a fare un casting che nemmeno lui sapeva per che cos’era: ha scoperto che era per Stranger Things 3 e che i produttori Netflix sono impazziti per lui.
E’ la sua svolta. Appare in quattro puntate, non un ruolo da protagonista, ma un ruolo ricorrente e soprattutto “speaking”, dove può mostrare per la prima volta, a 50 passati da un pezzo, il suo talento. Soprattutto, per la prima volta in vita sua raggiunge la tranquillità economica.
Ma il bello deve ancora arrivare: gli agenti di Los Angeles che prima lo schifavano ora lo chiamano, lo vogliono, si sono accorti che non ha niente di meno dei grandi caratteristi del cinema americano alla John Candy.
Firma per altri quattro film, tra cui una scena in The Irishman e uno prodotto da Keanu Reeves. A settembre ci sentiamo e mi dice che ha firmato per un film mainstream da co-protagonista e per un altro ruolo, stavolta importante, in una nuova serie HBO. Ha 56 anni. Ce l’ha fatta, contro il pronostico di tutti.
Ma a parte il lato professionale, era il suo lato umano a conquistarti, come quando nel 2017, ai tempi del “travel ban” di Trump – ero disoccupato e provavo a guadagnarmi in qualche modo da vivere girando dei servizi per delle testate italiane – si offrì di venire gratis a farmi da operatore audio per un servizio per Rainew24, nonostante una tormenta di neve.
Per non parlare di quando andammo insieme al festival di Cannes 2015, credendo che il nostro film, Frankie, fosse stato selezionato in concorso. Arrivati li scoprimmo che era una truffa, il festival aveva una sezione chiamata "short corner" che non c'entrava niente con il festival, era solo un mezzo per abbindolare i giovani filmmaker, facendoli spendere soldi per ricevere in cambio assolutamente niente.
Ero steso per terra sull'erba della Croisette, a piangere con la voglia di mollare tutto, e lui prese la chiavetta del mio film dicendo "This is a good movie, I'm gonna show it to everybody!" e sparì. br>
Lo rividi la sera seduto al Mc Donalds - il solito doppio Big Mac menù – tutti e due con lo smoking preso a noleggio, e mi avvisò che aveva lasciato la chiavetta a una "pretty italian girl”.
Io ovviamente manco lo ascoltai, ma 6 mesi dopo, come in un film, mi telefonò la pretty italian girl, che era Eugenie del Centro Nazionale del Cortometraggio, e mi disse che aveva ricevuto la chiavetta con Frankie da un tipo di cui non ricordava il nome ma solo l’entusiasmo e che lo aveva selezionato per essere mostrato nei centri di cultura italiana di tutto il mondo.
Da li, il film entrò nella cinquina finalista dei Nastri d'Argento 2016: non mi fece diventare ricco, non mi diede la fama, ma mi fece capire che il mio lavoro valeva qualcosa, e mi diede la forza per andare avanti per sempre in un mondo di stronzi.
Mai avrei immaginato, allo scoppiare dell’epidemia, che sarebbe potuto accadere a lui, lui che dopo aver lottato per tutta la vita era riuscito finalmente ad ottenere dalla vita quanto strameritava.
Anche perché la beffa, che rende il tutto ancora più inaccettabile, è che dopo 26 giorni di coma durissimo, con quella forza che era in grado di trovare chissà dove, Olan si riprende e torna a respirare da solo.
Le sue prima parole sono “dov’è Al?” dove Al è il suo cane, l’unico vero amore di un’esistenza sentimentalmente molto inquieta e complicata.
Solo che, mentre lui era addormentato, le cose in America, e soprattutto a New York, sono degenerate. Trump non parla più di influenza, è diventato il Presidente d’Azione tra gli applausi persino dei media liberal: peccato che negli ospedali si paghi un tributo di sangue indecente alla sua maledetta arroganza e alla sua impreparazione criminale e così, siccome non ci sono letti né respiratori, Olan viene rispedito a casa, per far posto a qualcuno in condizioni più gravi di lui.
Tre giorni dopo, nella notte, Olan Timothy Montgomery muore nella sua piccola casa del Meatpacking District, la stessa da dove decine di volte avevamo guardato i grattacieli fuori dalla finestra, immaginando storie per un film, fantasticando su quello che sarebbe stato del nostro futuro.
Vaya con dios, amico mio. Sarà impossibile guardare lo skyline di New York senza pensare a te e al tuo meraviglioso entusiasmo, assai più contagioso di questo fottuto virus.