I Hate Milano

di Mister Milano

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I Hate Milano
La Milano che fa eventi e non cultura. La sindrome dello Yes. I HATE

Avrete sicuramente notato, al ritorno delle vacanze, la campagna di comunicazione del Comune che vedete nella foto. C’è il calendario con tutti i mesi e di seguito alcune caselle colorate con il nome “dell’evento” che potete trovare a Milano in quel periodo dell’anno.
La campagna è ovunque, persino sul maxi-schermo Coin in piazza Cinque Giornate, e si chiama “Yes Milano” – c’è pure il sito omonimo.
La prima domanda che vorremmo fare è: ma chi ha deciso il nome “Yes Milano”?
È davvero bizzarra l’idea di fare una campagna rivolta al turismo, che punta a mostrare a chi viene da fuori la ricchezza e il dinamismo di Milano e utilizzare un inglesismo. Si vuole mostrare che Milano è viva, che a Milano si sta bene e che non ha nulla da invidiare alle altre capitali europee? E allora perché usare una lingua straniera – che è esso stesso un esercizio di invidia?
Il provincialismo culturale, disciplina in cui noi italiani eccelliamo, è qui espresso ai massimi livelli.

Leggi “Yes Milano” e pensi ai paninari degli anni ’80 di piazza San Babila, che cercavano di imitare gli americani con risultati spesso tragi-comici. Quelli, però, erano una minoranza vittime di infinite parodie. Oggi invece i paninari si sono estinti, ma la loro cultura è più viva che mai e anzi è diventata maggioritaria. Persino la sinistra si è “paninarizzata”, basti pensare all’intera epopea di Renzi o al piglio da ganzo di Beppe Sala. Tuttavia, visti i sondaggi in chiave elezioni politiche 2018, la strategia non sembra avere portato buoni frutti, anzi.
Ma aldilà della sinistra, è proprio l’idea su cui si basa “Yes Milano” ad essere perdente in partenza.
Da anni, nella pubblica amministrazione – e sia ben chiaro, non solo a Milano – si è diffusa l’errata concezione che la parola “evento” e la parola “cultura” siano intercambiabili, quando in realtà non potrebbero essere più diverse.
La cultura si basa sullo scambio, ha forma orizzontale e per oggetto sociale il dubbio, la diversità e la sperimentazione; accade negli anfratti, spesso ha il sapore del vino e sboccia soprattutto a tarda notte. L’evento invece è basato sul profitto, ha forma verticale perché calato dall’alto, ha bisogno di ordine, di pulizia, di una lista di invitati e dei bodyguards a controllare che tutti paghino il biglietto.
La Milano degli anni ’90 era una città di cultura, di cinema, di teatri e sale da concerti: non a caso, molte delle eccellenze internazionali della moda, della musica e dell’arte di oggi provengono da li. La Milano di oggi è invece una città dove prosperano gli “eventi”, Movie City, Food City, Piano City, Fighi City, e dove però i cinema e i teatri sono spariti uno via l’altro – non parliamo dei posti dove si suona musica dal vivo – e dove chi prova a fare cultura senza avere alle spalle un “brand” deve combattere una guerra impari senza l’aiuto di nessuno. L’evento funziona quando rispetta la sua natura di una tantum: quando diventa sistema allora non funziona più, diventando una mera foglia di fico per mascherare il vuoto che prova a nascondere.
Si, c’è Movie City: ma quanti cineasti sono usciti da Milano negli ultimi anni, quanto supporto è stato dato loro, e soprattutto quante sale cinematografiche hanno chiuso?
Si, c’è Piano City: quante sale da concerto hanno chiuso, che sostegno viene dato oggi a Milano ai musicisti, dove sono andate a finire le esperienze come la Casa 139?
Con la cultura la città si sporca, e sporcandosi riflette su se stessa, e alla lunga evolve, con l’evento tutto resta pulito, non c’è scambio, e senza scambio non c’è evoluzione: e alla fine l’unico che ci guadagna è il privato che realizza il suo profitto.
La ribellione alla logica della cultura come merce da vendere, alla base di “Yes Milano”, è l’idea che ha ispirato le più importanti esperienza culturali di Berlino durante gli scorsi due decenni, e che hanno permesso alla città di diventare, oggi, uno dei centri culturali più sviluppati a livello mondiale. Noi invece dobbiamo leggere sui manifesti “Yes Milano” come se fossero ancora i tempi di Enzo Braschi, senza che nessuno trovi niente da ridire, come se la cultura, a Milano, non possa essere che quello. Viviamo, ancora, nella grande bolla di Expo 2015. Ci accontentiamo della supremazia su Roma, senza capire che la gara la dovremmo fare con Parigi, Berlino, Londra; e mentre ci pavoneggiamo di un primato inutile, continuiamo a perdere terreno, facendo finta che tutto sia “toppissimo”. Il risveglio non sarà duro. Sarà brutale.

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