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Coronavirus: milanesi d’adozione abbandonati. Le falle del welfare ambrosiano

di Francesco Floris per Affaritaliani.it Milano

I “milanesi d'adozione” abbandonati dal Welfare Ambrosiano. Ecco come crolla il mito “città aperta” sotto i colpi della crisi causata dal Coronavirus

I milanesi d’adozione abbandonati. Le falle del welfare ambrosiano

Lei studia Data Science e lavora in stage a 400 euro per un'azienda di analisi dati. “Arrotondo con lavori da hostess o hair-model. Ora è tutto fermo”. Lui grafico e fotografo con “in ballo due assunzioni a febbraio, entrambe congelate fino a data da definirsi”. Ora è disoccupato. O meglio “inattivo” come dice l'Istat mostrando invece dati sulla disoccupazione che vanno sinistramente a migliorare in termini percentuali. Perché ora chi non ha un lavoro nemmeno lo cerca. E quindi esce dai “disoccupati” ed entra nel calderone degli “inattivi”. Sono fidanzati e con un appartamento in coppia affittato in nero a Lambrate. Affetto stabile di sicuro. Affitto stabile un po' meno. “Non siamo voluti scendere come tanti perché lo troviamo immaturo – racconta Giulia – ma ora abbiamo da pagare 850 euro più le bollette per vivere in un buco con una finestra che si affaccia sulla ringhiera. Abbiamo provato a chiedere una riduzione del canone per questi mesi ma il proprietario non è d’accordo. È un conoscente e non ce la sentiamo di entrare in conflitto”.

Chiara ha invece una storia che sintetizza tutte le contraddizioni della Milano odierna: commessa per marchio di moda, con target clienti medio-alto, stipendio da 1.300 euro al mese con qualche ora di straordinario e lavoro nei festivi. L'1 maggio – per la festa dei lavoratori – doveva essere assunta a tempo indeterminato, come prevede il Decreto Dignità, dopo anni di transumanza lavorativa precaria fra diversi gruppi industriali del commercio. Nelle settimane del lockdown non riceve notizie dall'azienda. Qualche timido “stai tranquilla” nelle chat su whatsapp e l'invito a filmarsi con indosso la divisa del lavoro per promuovere il marchio sui social tramite hashtag. Ottimismo a poco prezzo per i clienti orfani dello shopping meneghino. Il 29 aprile, la mattina dopo la conferenza stampa di Giuseppe Conte in cui per il piccolo commercio non sono arrivate buone notizie, come prevedibile, le dicono che il contratto non ci sarà. “Ci facciamo sentire quando le cose vanno meglio”. Parte la depressione. L'ansia. La paura che un intero progetto di vita le crolli addosso. Deve chiedere subito la disoccupazione, la Naspi, mai chiesta in dieci anni di lavoro ma questa volta è diverso: ora è tutto chiuso e i colloqui si fanno a malapena su skype. “Chissà quando mi arriveranno i soldi” commenta amaramente. Già. Perché nel frattempo dall'Inps non le è arrivato nemmeno un euro di assegno ordinario Fis – l'equivalente della cassa integrazione per il commercio e che la dovrebbe coprire da metà marzo – nonostante le promesse del Presidente dell'ente, Pasquale Tridico, di liquidare le prestazioni entro fine aprile.

Chiara ha un affitto da pagare, possibilmente senza dare fondo ai suoi duemila euro sul conto corrente e senza dover chiamare a casa. E allora guarda come funziona il nuovo bando per il sostegno affitto lanciato dal Comune di Milano il 30 aprile. “Una prima misura per chi fatica a pagare, per chi sta subendo i colpi più duri” ha detto l'assessore alle politiche sociali e abitative, Gabriele Rabaiotti. Poco meno di 3 milioni di euro, per erogare contributi da 1.500 euro ciascuno, direttamente su conto corrente del proprietario di casa e coprire fino a 4 mensilità non versate o ancora da versare. Significa un aiuto, piccolo ma concreto, per circa 2mila nuclei famigliari o inquilini milanesi. Per accedere bisogna avere un contratto di locazione depositato da almeno un anno alla data del 30 marzo. Le domande si possono presentare fino al 20 maggio. Requisito di Isee fissato a 26mila ma quasi tutti dovranno autocertificare questa situazione, vista l'impossibilità attuale di recarsi nei Caf, o comunque presentare l'Isee 2019 (quindi su redditi 2018) e successivamente, entro il 30 giugno, integrare la domanda. I contributi saranno erogati da “Milano Abitare”, l'Agenzia sociale per la locazione gestita da Fondazione Welfare Ambrosiano i cui soci fondatori sono il Comune, la Città Metropolitana, la Camera di Commercio, Cgil, Cisl e Uil.

Tecnicamente si tratta di un normalissimo bando sostegno affitto, come ne escono tutti gli anni quando Regioni e Comuni hanno qualche risorsa a disposizione. Milano ha voluto collegarlo in modo più evidente all'emergenza economica correlata al Covid. Inserendo fra i criteri per aggiudicare un punteggio al richiedente alcune voci come la “cessazione, riduzione o assenza dell’attività lavorativa per ciascun componente del nucleo a partire dal 1 Febbraio 2020”. Ma anche il “Ricovero ospedaliero per sintomi COVID-19 o decesso di un componente del nucleo familiare a partire dal 1 Febbraio 2020”. In maniera forse un po' propagandistica. Perché l'aver perso un membro del nucleo famigliare a causa del Coronavirus dà un punteggio doppio rispetto all'aver perso il lavoro. Quando è chiaro a chiunque che sarebbe necessario distinguere il dramma personale della perdita di un congiunto dalla dimensione economica. Per dirla in modo molto tranchant: la perdita di un congiunto disoccupato e magari mantenuto con il proprio stipendio o con la propria pensione, in termini di bilancio familiare, è una situazione che va migliorando, non peggiorando. Brutale ma vero.

Fatto sta che Chiara ha le carte in regola per chiedere un aiuto al Comune di Milano: Isee sotto i 26mila e ha perso il lavoro causa Covid. Gliene manca solo uno. Non ha la residenza in città. Già. Perché Chiara se ne è andata dalla Liguria a 18 anni. Ha lavorato a Londra, in Spagna, è tornata nelle Cinque Terre e a settembre di due anni fa si è trasferita a Milano per lavorare. Tenendo sempre la residenza a casa della madre, come fanno migliaia di persone in questi casi e per svariate ragioni: il medico di base lo si tiene a “casa”. Il conto corrente lo si tiene nella banca “di paese”. La residenza si lascia nel luogo di origine perché se un anno le cose si mettono male e si guadagna troppo poco la famiglia può comunque chiedere le detrazioni per i figli a carico. Si viaggia per anni cambiando appartamento ogni 12 mesi, anche dentro la stessa città, talvolta in nero. Non è un modello di sviluppo e di mercato del lavoro particolarmente intelligente ma è così che va il mondo e chi scrive i bandi per l'accesso al welfare o detta le regole dovrebbe saperlo e agire di conseguenza. Altrimenti poi non ci si può lamentare degli “esodi verso sud” da Stazione Centrale, dei “traditori che scappano da Milano” come sono stati additati molti fuori sede e lavoratori immigrati che a febbraio e marzo hanno lasciato il capoluogo lombardo, oppure del fatto che i treni per il Meridione sono già tutti prenotati per lunedì 4 maggio. È normale che capiti. E infatti Chiara dice ad Affaritaliani.it Milano “Sto pensando di tornare a La Spezia”. Lasciando con un cerino in mano la sua proprietaria di casa e anche la sua coinquilina siciliana che, a quel punto, non potendo più dividere l'affitto, sarà costretta a prendere la stessa decisione. Rientrare. Ecco come si svuota una città. Ecco come crolla il “modello Milano”.

Di chi sono le responsabilità? La catena è lunga. Partiamo dal fatto che i 3 milioni di euro a disposizione per circa 2mila nuclei familiari – “2 milioni e 456mila euro che saranno aumentati sulla base della disponibilità di risorse aggiuntive” si legge nel bando per la precisione – sono una cifra ridicola. A inizio aprile questo giornale ha stimato che solo nel primo mese di crisi 4mila persone non avrebbero pagato totalmente o in parte l'affitto, incrociando i dati del mercato immobiliare con il calo di utenze elettriche e raccolta rifiuti porta a porta. Per dare un'idea: secondo il rapporto immobiliare 2019 congiunto fra Agenzia delle Entrate e Associazione Bancaria Italiana, il mercato degli affitti abitativi a Milano, comprensivo di mercato ordinario di lungo periodo, transitorio, per studenti e concordato ma escludendo l'enorme capitolo delle case popolari, vale 466,1 milioni di euro all'anno. Secondo la stessa fonte sono spalmati su 46.663 abitazioni locate per una media di 832 euro al mese di canone. Le risorse per il sostegno del “mondo affitti” partono da un Fondo nazionale istituito in Finanziaria, vengono suddivise fra le diverse regioni che a loro volta le ripartiscono fra i comuni del territorio.

Secondo un documento consultato da Affaritaliani.it, Milano in conferenza Stato-Regioni ad aprile proprio queste ultime hanno chiesto uno “strutturale e permanente significativo incremento del Fondo Nazionale per il sostegno all'accesso alle abitazioni” nell'ordine dei 450 milioni di euro (50 milioni è la dotazione standard in Legge di Bilancio) “come da fabbisogno annuale complessivo rilevabile dal monitoraggio del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti”. Da sommare a uno stanziamento straordinario di 100 milioni di euro, immediatamente disponibile e dedicato alle famiglie che subiscono una perdita accertata del 30 per cento del reddito rispetto all'anno precedente. Totale: 550 milioni di euro. Che per dare un'idea, è quasi il doppio rispetto a quanto chiedeva poche settimane prima il segretario del Sindacato Unitario Inquilini e Abitanti della Cgil, il lombardo Stefano Chiappelli. Che proprio a questa testata ha parlato di “300 milioni di euro necessari”. Se i governatori delle regioni, gli assessori alle politiche abitative e gli staff tecnici chiedono il doppio della Cgil, significa che qualcuno sa la portata dello tsunami che sta per arrivare.

Il Governo Conte bis per ora ha fatto tutto tranne che prendere il toro per le corna anche perché schiacciato dai diversi interessi in gioco oltre che dal problema di reperire le risorse. Ha bloccato le esecuzioni degli sfratti, fino all'1 settembre, di fatto rimandandoli suscitando la rabbia di Giorgio Spaziani Testa, Presidente di Confedilizia, storica associazione della proprietà che ha twittato “A fare i generosi con i soldi degli altri son capaci tutti”. Se l'è presa anche con Banca d'Italia che ha messo nero su bianco la frase è “presumibile che nell’immediato, a parità di risorse economiche, le pressioni finanziarie siano maggiori per le famiglie che non possiedono l’abitazione di residenza”. “Se la Banca d'Italia scrive questo, difficile sperare in una politica che riesca a fare le scelte giuste” dice Spaziani Testa. Dall'altro lato della barricata il governo sente le pressioni sindacali dei rappresentanti degli inquilini. “Per il Governo gli inquilini valgono lo 0,18 per cento” dice Massimo Pasquini segretario nazionale di Unione Inquilini. “Questo è quanto sarà stanziato per i contributi affitto nel prossimo decreto da 55 miliardi di euro. Il governo cosi irride la maggioranza che al Senato con ordine del giorno accolto aveva chiesto ingenti risorse e condanna decine di migliaia di famiglie allo sfratto. Sappiano anche regioni e comuni che l'ondata di richieste di contributi affitto li travolgerà”.

E sono proprio le regioni a fare le regole del gioco per l'accesso a questi fondi – nel rispetto di Costituzione e norme quadro – essendo le politiche abitative una loro competenza. E la maggioranza di centrodestra al Pirellone, da diversi anni, inserisce sempre quello della “residenza” come criterio vincolante per accedere a qualunque tipo di prestazione, senza peraltro essere contestata su questo punto dall'opposizione dem o dai sindaci di centro sinistra.

Viene fatto per più motivi: scremare all'ingresso una quota di richiedenti delle prestazioni sociali e raggiungere quindi un equilibrio di bilancio migliore. Ma anche a causa della cultura politica leghista imbevuta di “prima gli italiani”. E quindi la residenza come strumento per far fuori dal welfare gli immigrati extracomunitari. Il problema di questo ragionamento, anche a volerne accettare la logica, è che la Lombardia è piena di italiani che non hanno la residenza qui. Nonostante ciò le leggi regionali proseguono dritte per la loro strada e questo nonostante la Corte Costituzionale abbia già bocciato il criterio dei 5 anni di residenza inserito nel regolamento sull'accesso alle case popolari pochi mesi fa. Tanto che se la “residenza continuativa sul territorio” era ostativa anche per l'accesso ai “buoni spesa” da 300 o 700 euro che il Comune di Milano sta distribuendo a quasi 14mila famiglie in città in difficoltà, alcuni volontari delle “Brigate per l'emergenza”, che da due mesi distribuiscono pacchi e beni nelle periferie, raccontano ad Affaritailiani.it Milano che “le domande pervenute dai non residenti le accettano lo stesso.

Il requisito serve a dissuadere ma le domande presentate non le respingono per evitare cause per discriminazione”. Già. Perché a Milano sul tema sono attivi da anni agguerriti gruppi di avvocati. Legati ad associazioni e movimenti culturali o politici. Che puntano a cambiare o smontare le normative dentro i tribunali e costringere il legislatore a tornare sui propri passi. Guadagnano sui risarcimenti quando vincono le cause, non con le parcelle, e quindi possono permettersi di difendere in tribunale i più poveri, coloro che un legale che non se lo potrebbero mai permettere.

E infine c'è un fatto. Che non ha colore politico. I non residenti sono i figli di un Dio minore nell'economia urbana. Lavorano, pagano le tasse, gli affitti, l'abbonamento ai mezzi pubblici. Tengono vivi interi pezzi del settore “entertainment” della città, nei lavori che “i milanesi non vogliono più fare” si potrebbe dire con una battuta. Di solito i non residenti “pesano” anche meno di altre categorie sui bilanci pubblici. Perché sono giovani, arrivati da poco, e quindi non prendono pensioni, non vanno in ospedale, non si ammalano, non vantano crediti d'imposta verso l'erario. Però hanno un difetto, fino a quando non si stabilizzano definitivamente. Non votano. Non possono farlo. Né per il sindaco Giuseppe Sala. Né per il Presidente di Regione Attilio Fontana. Né per l'assessore Bolognini o Rabaiotti. Anche la democrazia ha la sua serie B. E chissà quando riaprirà la serie cadetta.








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