Milano

Il dossier di Bergamo che fa tremare il Governo: “10 mila morti evitabili”

di Manuela D’Alessandro per Agi

Pier Paolo Lunelli spiega perché la storia del virus in Italia poteva essere molto diversa e chiede di desecretare il piano di emergenza nazionale di gennaio

Il dossier di Bergamo che fa tremare il Governo: “10 mila morti evitabili”

Sul suo dossier agli atti dell'inchiesta della Procura di Bergamo, che ha portato all'audizione anche di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi, puntano moltissimo i familiari della vittime, raccolti nel Comitato 'Noi Denunceremo', per dimostrare che la conta dei morti sarebbe stata molto più contenuta, se si fosse fatto quello che ci veniva chiesto da anni dall'Oms: un piano pandemico adeguato a prevenire un'epidemia influenzale, come quelli elaborati da altri Paesi, a cominciare dalla Germania. Pier Paolo Lunelli, ex generale dell'Esercito, già responsabile della Scuola interforze per la Difesa Nbc, la struttura che forma il personale militare e quello ministeriale al contrasto delle minacce di tipo biologico, chimico e radiologico e autore di diversi di protocolli pandemici per vari Stati Europei, spiega all'AGI perché la storia del coronavirus in Italia avrebbe potuto essere diversa.  

Nel suo paper, Lei sostiene che avere un piano pandemico efficace avrebbe consentito all’Italia di evitare 10mila morti. Perché?

Nel mio testo utilizzo il termine 'verosimile', non il termine 'certo'. Confrontando le performance in termini di vittime ogni milione di abitanti dei vari Paesi europei (è certamente brutto accostare performance con vittime) ho soltanto rilevato l’esistenza di una correlazione tra la data di aggiornamento dei rispettivi piani e il tasso di mortalità di quel Paese, inteso come numero di vittime per milione di abitanti.  In poche parole, chi aveva piani più recenti ha avuto meno, anzi molti meno, morti. In questa prospettiva, se avessimo avuto le performance dei tedeschi, che nei loro piani sono inflessibili e tremendamente organizzati, avremmo avuto in totale intorno a 6mila vittime anziché 35mila. Tuttavia, senza puntare così in alto e accontentandoci delle performance medie dell’Olanda, forse avremmo potuto risparmiare 10mila vite. Ma anche se ne avessimo salvate soltanto mille ne sarebbe valsa la pena. 

L’Oms aveva avvertito più volte della necessità di dotarsi di un piano, ma l’Italia non ha risposto in modo adeguato. In capo a chi ricadono le responsabilità di questa lacuna? Solo alla politica o anche alla Protezione Civile o altri enti 'tecnici'?  

Il mio paper si basa esclusivamente su fatti tratti da fonti aperte e sufficientemente affidabili. Non ho informazioni per stabilire se la responsabilità sia politica o della burocrazia ministeriale e una risposta in questo senso sarebbe soltanto un’opinione. 

Tuttavia, sulla base di quanto riportato nel suo sito, la Protezione civile non appare essere responsabile in materia di pandemie. E’ invece responsabile della pianificazione di tutte le altre calamità, escluse quelle pandemiche. Quello che affermo è confermato dal rapporto internazionale del 2019 sulle capacità di rispondere alle emergenze sanitarie (Ghs) di tutti i Paesi. Inoltre, in tutti gli Stati europei l’emergenza pandemica è gestita dal Ministero della Salute, che è l’unico organo che risulta essere interfacciato con l’Organizzazione Mondiale della Sanità e con il Centro europeo per la prevenzione delle malattie. L’autorità politica, in tutti i Paesi europei, è chiamata in causa nella decisione sul rischio da assumere, semplicemente perché un rischio alto comporta maggiori costi e risorse da allocare per prepararsi a questa emergenza.

L’assenza del piano pandemico ha comportato una centralizzazione delle decisioni. E’ anche per l’assenza di un piano che stabilisse a chi spettasse cosa che ora, per la magistratura e  per l’opinione pubblica, è molto complicato stabilire delle responsabilità? 

Questa domanda centra un punto chiave ma posso dare soltanto una risposta tecnica. Più centralizzazione o più decentralizzazione è la sostanza del dilemma che ci si para quando dobbiamo prendere decisioni in una grave situazione di incertezza come quella pandemica. 

Con la centralizzazione vi è un unico organo che decide anche cosa si deve fare fino al singolo Comune. La gerarchia Stato, Regioni, Province, Comuni viene quasi azzerata. La direzione e il controllo accentrati sono la migliore soluzione in un ambiente esterno stabile, ma non in una ambiente che sta diventando caotico come una pandemia. Nel caso di ambiente fortemente perturbato e in situazioni particolarmente complesse, la soluzione ottimale è la  decentralizzazione, assicurando alle regioni e alle Asl un’autonomia decisionale per assolvere al meglio il compito affidato. Tuttavia, una premessa indispensabile  per applicare la decentralizzazione è la disponibilità di un binario su cui muoversi, un binario tracciato da precisi compiti e da piani coordinati e armonizzati ai diversi livelli: centrale, regionale e locale. In altre parole, in situazioni di grande complessità e incertezza come le pandemie, la decentralizzazione appare la miglior soluzione, con il presupposto che siano già stati attivati piani coordinati a livello centrale, regionale e locale. Questa soluzione, naturalmente, presume di fare riferimento su subordinati capaci, attivi ed esperti nel decidere bene e rapidamente nella specifica materia. 

Che obblighi avevano le Regioni, le Ats e le Asst in relazione ai protocolli di attuazione del piano pandemico? Sono completamente esenti da responsabilità visto che è mancato il ‘primo’ anello della catena di comando, cioè il Governo? Oppure potevano fare in autonomia delle scelte? Per esempio, Asst di Bergamo est, sollecitata da AGI sul punto, ha risposto di “non essere tenuta ad adottare un piano” e che “il piano nazionale fa riferimento all’aviaria, da non potersi comparare alla pandemia da Covid 19”.  Altre Ats, come quella di Lodi, hanno perlomeno tentato di disciplinare in anticipo l’emergenza.

Ha perfettamente ragione. Ho avuto modo di  leggere qualche giorno fa il piano pandemico degli Spedali di Brescia datato circa cinque anni fa. Un’iniziativa eccellente: punti di contatto, azioni preliminari e molto altro; mancavano solo le ipotesi sui parametri epidemiologici (tasso di attacco, di ospedalizzazione e di terapia intensiva, di mortalità ecc.) che qualcun altro avrebbe dovuto loro fornire. Questi parametri variano.

In una città come Milano il tasso di attacco è inevitabilmente più alto (metropolitana, 'movida') ma a Madesimo o nell’alta Val Chiavenna sono sicuramente inferiori (eccetto il caso di forte afflusso di sciatori come è accaduto a cavallo tra gennaio e marzo). Circa le responsabilità delle Asst, in tutti i Paesi europei è il Ministero della Salute che dialoga con l’Organizzazione Mondiale della Sanità e il Centro europeo per il controllo delle malattie. Non ho idea se questa possibilità in Italia è data anche alle Ats, ma non credo, se non ai fini informativi (questa è una mia opinione, nel mio paper le chiamo ancora Asl ma è una vecchia abitudine).

Esiste un piano di emergenza di gennaio che è stato secretato. Pensa che andrebbe desecretato e perché viene nascosto all’opinione pubblica? Esistono altri Paesi dove questi piani vengono secretati?

Non credo esistano Paesi democratici, nel vero senso della parola, almeno in Europa, dove questi piani vengono secretati. La secretazione può essere legittima, se è connessa a gravi esigenze di sicurezza nazionale. Tuttavia, dopo il passaggio alla fase due, questi documenti, che non riguardano cose militari, dovrebbero essere resi pubblici. 

Perché Gran Bretagna e Usa, pur avendo dei buoni piani, non sembrano aver gestito l’emergenza in modo consono?

Gb e Usa - e questa è la mia opinione - hanno commesso gravi errori nel passare dalla teoria dei piani all’azione sul campo. Boris Johnson a fine gennaio decise di non presiedere una riunione del Comitato di emergenza del governo, dove si discuteva sull'opportunità di effettuare test diagnostici a tappeto, di potenziare le scorte per la protezione individuale del personale sanitario e di predisporre un eventuale lockdown. Da allora, il primo ministro ha continuato a stringere ogni mano a portata di braccio confidando “nell'immunità del gregge", così come Donald Trump. Il 12 marzo  (noi avevamo già chiuso tutto) annunciò che la Gran Bretagna sarebbe passata dalla fase di "contenimento" dell'emergenza alla fase di "ritardo". Questa decisione significava che il tracciamento dei contatti sarebbe stato abbandonato e i test sarebbero stati limitati a solo ai ricoverati in ospedale con sintomi. Soltanto 23 marzo, quando la situazione era ormai andata fuori controllo, ha attivato il lockdown del Paese. Quattro giorni dopo è stato testato positivo al Covid e il 5 Aprile ricoverato per tre giorni in terapia intensiva. Il 10 maggio, ripresosi dalla malattia, ha cambiato completamente approccio allineandosi agli altri Paesi europei. Ma ormai era troppo tardi. L’orgoglio personale, il sentirsi superiori agli altri, l’eccessiva sicurezza in sé stessi (il 'bias dell’overconfidence'), la hubris, quella tracotanza che caratterizza molti politici del mondo anglosassone, hanno portato a commettere gravissimi errori nella gestione della pandemia, hanno reso inutile l’accurata pianificazione. E infine hanno causato un elevato numero di vittime e un tasso di mortalità perfino superiore al nostro.

 







A2A
ZX