Milano
Il mistero trasparente di Giorgio Morandi
A Palazzo Reale la mostra dedicata al maestro bolognese, di cui per prima Milano riconobbe una grandezza che ancora oggi confonde e destabilizza
Il mistero trasparente di Giorgio Morandi
"Prima di morire vorrei condurre a fine due quadri". Così, non senza una punta di ironia, diceva Giorgio Morandi a Piero Bargellini nel 1937. E' in questa affermazione paradossale che potremmo trovare la chiave di lettura di quello che vorremmo definire il "mistero trasparente" del pittore bolognese. Tra i principali maestri italiani ed europei del ventesimo secolo, celebrato poeta delle piccole cose quotidiane, autore di nature morte e paesaggi di inconfondibile riconoscibilità ma anche straordinario acquafortista. Il "pittore delle bottiglie" per usare la sintesi radicale della vulgata. Perchè questo effettivamente è stato: la sua grandezza di pittore è testimoniata e rappresentata proprio dalle sue composizioni costituite da pochissimi elementi poggiati sul tavolaccio della sua casa-studio, in equilibri sempre diversi. Ma il punto non sono naturalmente le bottiglie, bensì quello che attraverso di esse Morandi vedeva e voleva mostrare all'osservatore.
Natura morta (1918 - 1919)
Milano e Giorgio Morandi: un rapporto di lunga data
Milano rende omaggio all'artista del quale per prima seppe riconoscerne il talento, grazie alla lungimiranza di collezionisti come Vitali, Feroldi, Scheiwiller, Valdameri, De Angeli, Jesi, Jucker, Boschi Di Stefano, Vismara e della Galleria Il Milione che ne imposero il nome sul panorama nazionale. Sino al 4 febbraio 2024 è visitabile a Palazzo Reale la mostra curata da Maria Cristina Bandiera che ripercorre, attraverso centoventi opere, cinquanta anni di attività, dal 1913 al 1963, con l'obiettivo dichiarato di sfatare definitivamente il mito del Morandi solitario e alieno ai grandi cambiamenti culturali e artistici del proprio tempo. La consapevolezza del bolognese rispetto alle più attuali tendenze pittoriche e artistiche della sua epoca è del resto evidente anche in quella che è la sua affermazione più nota e citata: "Non vi è nulla di più astratto del reale" dichiarò negli anni Cinquanta quando volle destrutturare le fondamenta dei paragoni che parte della critica aveva un po' forzosamente iniziato ad istituire tra lui e Piet Mondrian. Morandi conosceva l'arte del Novecento e conosceva la propria arte. Sapeva, soprattutto, cosa davvero desiderava indagare.
Natura morta (1920)
La pittura di Morandi: letture aperte
La dirompente essenzialità della sua proposta artistica non ha mancato - e non manca tuttora - di disorientare. Di suggerire molteplici interpretazioni. De Chirico elogiava il lirismo della sua "metafisica degli oggetti più comuni", ascrivendo non senza più di una ragione Morandi nella schiera dei principali rappresentanti del suo stesso movimento. Ma il bolognese era anche molto altro: dal punto di vista puramente tecnico, straordinario interprete del tonalismo e artefice di una suggestiva collisione tra Cézanne e gli italiani, Giotto, Piero della Francesca e Paolo Uccello su tutti. Emblematica del mistero costituito dalla sua pittura resta la lettura fondamentalmente contrapposta che negli anni Quaranta diedero alla sua poetica due tra i principali critici d'arte italiani, Roberto Longhi e Lionello Venturi. Per il primo Morandi era un antidoto alle "deviazioni di gusto astrattistico". Mentre il secondo sosteneva al contrario che egli rappresentava "il passaggio dall'astratto al concreto", incarnando un ponte tra le due dimensioni.
Natura morta (1947)
Quella che Morandi ci mostra nei suoi dipinti è di fatto una realtà sublimata. Molto più espressione di un pensiero che cronaca di un fatto concreto. La familiarità e quotidianità degli oggetti rappresentati contribuiscono allo straniamento perché l'artista ne usa le sembianze per una operazione essenzialmente intellettuale. Anche le foto del suo studio bolognese a noi pervenute ci forniscono indizi in questo senso: sappiamo che Morandi sceglieva accuratamente gli oggetti che voleva porre al centro dei suoi quadri come se si trattasse di protagonisti di una messa in scena. Fondamentale era la loro forma: c'erano le bottiglie scannellate o a torciglione, quelle persiane basse e squadrate, quelle del vino di Borgogna e quelle piramidali a base triangolare. Attori, con specifiche caratteristiche fisiche. Attorno a queste figure, i comprimari: barattoli, scatole, imbuti, ciotole. Poi, proprio come a teatro, "truccava" e "decorava" le sue figure, dando un fondo di colore (spesso bianco) alle bottiglie. A quel punto, non restava che allestire il palcoscenico, il suo tavolaccio. Ciò che la pittura infine catturava, era dunque la rappresentazione fisica di un concetto.
La strada bianca (1941)
Ma quale idea dunque incarnava questa mise-en-scene alla quale bottiglie, ciotole, barattoli prestavano il proprio corpo? L'impressione è che Morandi intendesse fare affiorare un mondo di forme, volumi e colori puri. Scegliendo - o necessitando di - servirsi della mediazione di quegli oggetti comuni da lui trasfigurati per avvicinarsi quanto più possibile all'idea che dovevano interpretare, piuttosto che inventare tale mondo con un atto creativo completamente frutto della propria immaginazione. E' questo il punto di caduta in cui l'arte di Morandi allo stesso tempo appare e non appare figurativa. Un enigma elusivo su cui il pittore ha insistito per tutta la vita, modulando e rimodulando pochissimi elementi in modi sempre diversi.
Natura morta (1958)
Morandi, autore di un unico grande quadro
La conferma è nel procedimento adottato per i suoi paesaggi, che pur nel diverso approccio segue il medesimo criterio: Morandi individuava la porzione di reale su cui intendeva lavorare utilizzando un pezzo di cartone al cui interno aveva inciso una sorta di finestrella che diveniva il suo occhio, allo stesso modo in cui un regista cinematografico sceglie l'inquadratura. Ancora una volta, l'urgenza di una messa in scena. Va così ad acquisire un significato suggestivamente eloquente quello che è il percorso di Morandi negli ultimi anni della sua vita, quando il maestro operò una ulteriore sublimazione dei propri soggetti, dal punto di vista formale sempre più semplificati e ridotti all'essenziale. E' in questa fase che appare più manifesto un fatto che evidentemente c'era sin dal principio: le sue nature morte ed i suoi paesaggi convergono verso il medesimo punto di fuga, finendo per assomigliarsi sempre di più. Dichiarando di essere la stessa cosa. Diceva dunque Morandi di voler “condurre a fine due quadri”. Ma il segreto della sua grandezza è che ne volle sempre realizzare uno solo.
Paesaggio (1963)
Natura morta (1963)