Milano
Il postmoderno, ovvero l’atto di nascita della contemporaneità
Con “L’arte postmoderna” il sociologo, storico e critico d’arte Gian Piero Rabuffi ricostruisce i tratti di una stagione fondamentale per comprendere l'oggi
Il postmoderno, ovvero l’atto di nascita della contemporaneità
Che cosa è stato il postmoderno? Un indistinto ed omnicomprensivo collante di idee, tendenze, ossessioni e feticci dell’Occidente molto in voga sino a qualche tempo fa o il manifestarsi di una crisi vera e profonda nel nostro modo di pensare a noi stessi e alla nostra identità, individuale e collettiva? L’ultimo afflato della modernità e del Novecento che nel proprio atto finale mette in scena la propria nichilistica e roboante autodistruzione o il confuso ed incerto bagliore di una nuova civiltà ancora priva di direzione e scopo? Solo ora che la stagione postmoderna appare a detta di tutti gli osservatori qualcosa di ormai storicizzabile, superato dalla nuova e ancora più deflagrante rivoluzione digitale e biotecnologica di cui i nostri anni paiono costituire solamente il preludio, è forse possibile cominciare a trarre qualche primo provvisorio bilancio.
E da una prospettiva specifica, particolare e di primario interesse, ovvero osservando la scena artistica postmoderna, è proprio ciò che si è proposto di fare il sociologo, storico e critico d’arte Gian Piero Rabuffi, con il suo volume intitolato “L’arte postmoderna”, edito da Pime. Un denso saggio che parla delle più innovative e sconvolgenti manifestazioni artistiche emerse tra la seconda metà degli anni Settanta, l’epoca d’oro del postmoderno degli anni Ottanta e quelle propaggini spintesi sino a lambire il nuovo millennio. Ma che racconta, inevitabilmente, anche di molto altro. Perché non è possibile comprendere ciò che è stata l’arte postmoderna senza guardare a ciò che contestualmente stava accadendo nel mondo a livello politico, economico, sociale, culturale. Il pieno manifestarsi del “tardo capitalismo” e delle sue logiche, che Jameson nel 1984 individua nell’affermazione di quei processi che conducono alla nascita delle grandi corporazioni multinazionali, all’internazionalizzazione dei mercati, all’ascesa dell’alta finanza, corre di pari passo con il mito della “fine della storia e delle grandi narrazioni” che domina il dibattito culturale almeno sin dalle riflessioni di Deleuze, Derrida, Foucault, Lyotard – autore quest’ultimo nel 1979 del decisivo testo “La condizioni postmoderna” – e che porta Baudrillard a postulare un piano dell’esistenza – il nostro – ormai simulacrale, fondato su iper-realtà e simulazione, privo di origine e verità.
L’arte che incarna questa miscela esplosiva, lo Zeitgeist della postmodernità, non può che essere a sua volta un problematico e schizofrenico mix di superficialità e visioni apocalittiche, euforica celebrazione degli aspetti più esteriori del passato (di cui conta solo la sua dimensione vintage), nichilismo autoriale e bulimica e orgiastica liberazione di ogni forma di espressione, legittimata dalla delegittimazione di qualsiasi termine di paragone assoluto. Dal fotorealismo alla “Pictures generation” newyorchese di fine anni Settanta. Dall’ascesa del neo-concettualismo al suo apparente opposto, con la rinascita della pittura nella quale voce in capitolo hanno anche gli italiani della Transavanguardia. Ed ancora l’astrattismo metropolitano di Neo-Geo, il neo espressionismo dello statunitense Julian Schnabel e delle superstar tedesche Baselitz, Richter, Kiefer. Ed infine, la triade che nelle peculiarità uniche e nei tratti distintivi dei suoi componenti definisce l’identità (e forse anche la principale eredità) dell’arte postmoderna: Jeff Koons, Keith Haring, Jean-Michel Basquiat. Gian Piero Rabuffi ricostruisce meticolosamente linguaggi, storie, nessi, irriducibili dissonanze, contraddizioni e folgoranti intuizioni. E si spinge sino al limitare lungo il quale si disperdono e si riannodano i fili tra l’età postmodernista e la nostra. Netta cesura o continuità? Ritorna l’interrogativo iniziale. Qualche elemento per una ipotesi di risposta c’è: i numi tutelari dell’arte postmoderna sono stati Duchamp e naturalmente Warhol. E da tali riferimenti anche l’arte di oggi pare non poter prescindere nel definire e rappresentare se stessa. Gli esempi sono tanti e tali che diviene superfluo menzionarli. Ad essere cambiato radicalmente nel breve volgere di pochi anni è però soprattutto il contesto circostante. Il volto del mondo è oggi profondamente segnato e condizionato dalla rivoluzione digitale, che ha cambiato i nomi delle forze trainanti della nostra società non solo a livello economico ma anche a livello culturale, sociale e probabilmente anche antropologico. E ciò che ancora chiamiamo capitalismo ha ristrutturato per l’ennesima volta se stesso inglobando i nuovi stimoli offerti da scienza e tecnologia e imponendo nuove abitudini, nuove prassi, nuovi modelli, nuovi desideri nella vita di miliardi di persone. Singolarmente e globalmente.
Ironicamente e non a caso, intelligenza artificiale, calcolatori onnipotenti, realtà virtuale ed aumentata costituivano l’ossessione dell’epoca postmoderna. Se ne fantasticava moltissimo. Ma è oggi che tali suggestioni di allora rappresentano concretamente – e sempre di più – parte rilevante della nostra esperienza quotidiana. Un altro indizio che porta a guardare all’epoca postmoderna – in arte e non solo – come ad una suggestiva e affascinante zona di interscambio. I preparativi per abbandonare il nostro vecchio mondo e le sue strutture ormai inutilizzabili in attesa che quello nuovo fosse pronto a concepire e forgiare quegli strumenti che ancora mancavano. Ma che già erano stati presentiti ed immaginati.