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Milano

Il Realismo esistenziale e gli antieroi delle periferie di Milano

“Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”: i celebri versi di Eugenio Montale potrebbero costituire la perfetta epigrafe per quel gruppo di pittori operanti a Milano nella seconda metà degli anni Cinquanta del Ventesimo secolo e che forgiarono la propria personalità a partire dalla ferma negazione di tutte le esperienze a loro più vicine. Una scelta determinata anche da un particolare e inedito approccio non solo estetico e culturale  ma soprattutto spirituale e psicologico. E proprio “realisti esistenziali” furono battezzati  Giuseppe Banchieri, Mino Ceretti, Giuseppe Guerreschi, Bepi Romagnoni, Tino Vaglieri, Floriano Bodini e Gianfranco Ferroni. Sei pittori ed uno scultore per un sodalizio la cui voce, forse anche per la particolarità di una proposta artistica dai toni volutamente sfumati e introspettivi, pare essere rimasta in secondo piano nel racconto dei più significativi contributi di Milano all'arte contemporanea. E che invece, proprio per il suo atteggiamento riflessivo, anti-retorico, dolentemente consapevole delle contraddizioni di cui pure era portatore,  si rivela uno dei momenti di svolta nell'aggiornare il linguaggio dell'arte italiana, in quel fondamentale crocevia tra l'uscita dal secondo Dopoguerra e l'esplosione del boom economico.

A ben sottolineare questa suggestiva identità liminale  del gruppo, e a riaccendere opportunamente i riflettori sui suoi meriti artistici, giunge il volume intitolato “Realismo esistenziale”, firmato dal noto professore d'arte contemporanea, sociologo d'arte e critico d'arte Gian Piero Rabuffi ed edito da Pime.

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Conosciutisi a Brera, dove la maggior parte di loro frequenta l' Accademia, accettano l'ineluttabilità del “parricidio” a fondamento della loro proposta artistica, con il rinnegamento della Guernica che tanto impatto ha sulla pittura del Dopoguerra, tanto da determinare la nascita di una tendenza internazionale, detta neo-picassismo, e che  in Italia ha il suo principale alfiere in Renato Guttuso, riverito Maestro di un'arte che si interpreta come portatrice di un messaggio di natura esplicitamente politica. Non così per Banchieri e sodali, per i quali le ferite della guerra, vissuta ma non combattuta appartenendo ad una generazione più giovane, non si sublimano in vocazione politica, ma si cicatrizzano in nodi di inquietudine che sono essenzialmente interiori e nascono da una dimensione privata. E tuttavia la presa di distanze da un'arte più apertamente politica non può e non vuole ancora significare  totale disimpegno, perchè in loro è acuta la percezione delle problematicità di un contesto sociale che sembra riflettere e amplificare i loro turbamenti. Per questo i “realisti esistenziali” si trovano a respingere anche l'altra proposta forte sulla scena artistica del tempo, quella che conduce all'astrattismo e a fronteggiare sfide che sono esclusivamente formali ed estetiche.

La chiave di volta per declinare in arte il loro sentire, spiega Rabuffi, consiste in uno scarto laterale. In uno sguardo altrove. Che non può essere rivolto verso Wols o Francis Bacon, la cui opera è attorno al 1954 ancora sostanziamente misconosciuta in Italia. Ma che punta per certi versi nella medesima direzione. A fare da ponte ideale, e a introdurre gli artisti milanesi in un contesto realmente internazionale, è l'influenza esercitata da Jean-Paul Sartre e dal suo esistenzialismo egualmente distante dall’ottimismo storico marxista e dalla morale kantiana,  al contempo appello alla libertà contro ogni oppressione e amara constatazione dell’inadeguatezza e ambiguità di ogni uomo. Una filosofia che si ritrova nelle opere di Albert Camus ma anche e soprattutto in una forma d'arte più giovane: il cinema. Quello francese della “Nouvelle vague” di François Truffaut, Jean-Luc Godard e degli altri, dei quali i giovani artisti milanesi sono grandi estimatori.  “Un po’ di esistenzialismo e un po’ di quella amara condizione di ‘uomo senza soluzioni’ di certo cinema francese”: così già nel 1956 il critico Marco Valsecchi sintetizza la ricetta cui lavorano Ceretti, Guerreschi e gli altri. E dunque questo acuto senso empatico nei confronti della realtà porta il gruppo milanese a cercare i motivi della propria arte tra quei drammi della quotidianità che maggiormente colpiscono la loro sensibilità. Che esulano dalla semplice annotazione cronachistica ma che non si riscattano divenendo racconto collettivo, restando dolenti narrazioni delle vicende di singole coscienze individuali, fenomenologie private.

“Il soggetto dei loro dipinti è la persona come entità privata e non come parte di un corpo sociale più ampio - spiega Rabuffi -  Anti-eroe delle loro opere è l’uomo contemporaneo, spesso quello delle periferie, con le vicissitudini dei suoi giorni. Le sue fatiche, le sconfitte, le ingiustizie, le aspirazioni, i bisogni, le velleità. La vita, dunque, nella sua concreta sostanza”.  La partecipazione  degli artisti nei confronti delle inquietudini dei soggetti delle loro opere li porta si manifesta nell'uso di un segno pittorico tormentato, materico, denso, nella predilezione, ognuno con il proprio specifico linguaggio, per l'uso del  nero, del  grigio, del  bruno. Sospesi a metà strada tra ciò che è percepito e chi percepisce, annota Flavio Arensi. Equilibrio fragile e precario sotto molteplici punti di vista. Ed infatti, complice anche la condizione di sostanziale isolamento presentita nelle premesse stesse della loro proposta che favorisce presto movimenti centrifughi, le singole posizioni si definiscono allontanandosi. Si suole far concludere la parabola dei “realisti esistenziali” nel 1964, anno della tragica morte di Romagnoni  durante una sessione di pesca subacquea in Sardegna. Ma lo slancio più autentico si era esaurito nel 1960.

Nel frattempo, il mondo era del resto attraversato da nuovi rapidi mutamenti che avrebbero messo repentinamente ed inesorabilmente fuorigioco la proposta dei sodali milanesi. Proprio nel 1964  la Biennale di Venezia celebrava e ratificava la rivoluzione della Pop Art statunitense. E per  l'arte contemporanea sarebbe iniziata tutta un'altra storia, intraprendendo una strada da allora di fatto  più abbandonata.

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