Milano
Coronavirus scuola: “Rischio è non tornare a settembre”. L’allarme del preside
Le scuole non riapriranno nella fase 2, ma la didattica a distanza funziona? L'intervista di Affari al preside dell’Istituto Puecher Olivetti di Rho
Coronavirus, scuola riapre a settembre - Il preside: servono indicazioni e una forma di valutazione per insegnanti e istituti
Non ci sperava più nessuno e infatti non è avvenuto: le scuole non riapriranno e si continuerà con la didattica a distanza fino a fine anno. Ma il vero mostro con cui combattere è settembre, la riapertura.
A dirlo è Emanuele Contu, dirigente scolastico dell’Istituto Puecher Olivetti di Rho (1100 studenti e 180 insegnanti), ma anche ex ispettore e soprattutto ex insegnante di Lettere alle Medie. Contu ha anche collaborato con Indire, l’organo nazionale di ricerca sui temi educativi ed è autore di “Liberare la scuola. Vent’anni di scuole autonome”, insieme insieme a Marco Campione (già nella squadra dei governi Renzi e Gentiloni, come capo della segreteria dei sottosegretari Miur Reggi e Faraone e poi nella segreteria tecnica della ministra Fedeli; ha contribuito a scrivere la riforma della Buona Scuola).
Sarà proprio alla riapertura dei cancelli che si raccoglieranno le macerie e soprattutto si dovrà avviare un nuovo anno scolastico completamente diverso da tutti quelli che lo hanno preceduto. E il pericolo più grosso è non poter tornare tra i banchi: “Ci saranno complicazioni sulla formazione delle classi nuove con gli studenti in ingresso: come si fa ad avviare il lavoro in classi dove gli studenti non si conoscono tra di loro e dove magari non hanno mai visto l’insegnante in presenza?”, si chiede il dirigente, in un’intervista ad Affaritaliani.it Milano.
Preside, non è preoccupante che nel discorso del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, sulla Fase 2 a partire dal 4 maggio, non si sia parlato di scuola e ragazzi, se non in rapporto ai genitori e al loro rientro al lavoro?
Da un certo punto di vista è preoccupante che Conte abbia sorvolato, ma la complessità delle cose in gioco quando si ipotizza la riapertura sono troppe. Mi sembra abbastanza chiaro che non ci sia un piano, ma sfido chiunque a mettere in piedi un piano che si regga. E’ un compito improbo: stiamo parlando di 8 milioni di persone tra studenti, docenti e personale, quotidianamente concentrati in spazi limitati e spesso in strutture poco adeguate già per una situazione ordinaria.
Da dirigente che cosa la preoccupa di più?
Sono preoccupato di non poter riprendere la scuola a settembre e di non avere chiarezza su cosa si farà. Il Governo ha scelto la prudenza e non me la sento di contestare. Ma il punto vero è un piano per il dopo.
La didattica a distanza ha funzionato?
La risposta è complessa. C’è una differenza importante tra ordini di scuole e tra istituto e istituto: bisogna dirlo.
E’ molto diverso fare didattica a distanza con studenti di 15 anni o con bambini di 7. Per non parlare della scuola dell’infanzia, dove l’attività normalmente è totalmente esperienziale e non si può realizzare a distanza.
Purtroppo non abbiamo dei dati di dettaglio né elementi che ci diano una fotografia delle differenze tra scuola e scuola.
Questo modo di insegnare non ha finito per acuire le disuguaglianze?
Questa situazione ci ha mostrato che le povertà educative finiscono per coincidere con le povertà sociali. Non è la stessa cosa proporre didattica a distanza a ragazzi che vivono in contesti sociali di buon livello con una connessione internet e un pc da usare solo per sé, e ragazzi che invece usano la connessione dati di un cellulare. Voglio dare un piccolo numero: solo nel mio istituto professionale più del 60% degli studenti segue la didattica a distanza da mobile. Questo significa che quando finiscono i dati sul telefono, diventano limitate anche le possibilità di vedere le lezioni in video, ad esempio.
Noi abbiamo donato in comodato d'uso al 10% degli studenti un pc e tablet, ma ci sono zone del Paese in cui il digital divide è profondo. Insomma il coronavirus ha portato alla luce un elemento di ritardo generale di un’Italia che non era pronta a trasferire in maniera così estemporanea l’attività di insegnamento sul digitale.
C’è chi è preoccupato perché non si sta andando avanti con i programmi e per le lacune che i ragazzi avranno.
Si sta andando avanti con i programmi, ma si deve procedere in generale in maniera più lenta con una selezione più attenta dei contenuti e degli argomenti. Questo non è per forza un aspetto negativo e sta spingendo i docenti a fare una riflessione attenta sull’utilizzo del tempo che hanno a disposizione. I miei docenti, ad esempio, prima usavano una parte delle ore di lezione per correggere i compiti fatti a casa, ora sono costretti a usare quel tempo solo per spiegare.
La classe degli insegnanti è spesso descritta come un corpo unico e pachidermico lento ai cambiamenti…
I docenti che stanno lavorando bene stanno lavorando molto di più del normale. Va detto. Però questo è proprio un uno degli elementi di limite che ci fa dire che la didattica a distanza è una risorsa da usare nella normalità, ma con la giusta misura. Il carico di lavoro che i docenti stanno sostenendo è molto più importante di quello ordinario.
E’ emerso nell’emergenza uno dei punti di forza di maestri e professori: la loro capacità di apprendere. La grande maggioranza ha acquisito competenze sull’uso del digitale in tempi rapidissimi, passando direttamente alla pratica; hanno dimostrato la capacità di reinventarsi e si sono rimboccati le maniche. Si è costruito così un patrimonio che servirà anche dopo. Insomma, ho avuto la percezione di una classe docente tutt’altro che pachidermica, anzi veloce.
Gli insegnanti hanno dato prova di essere non solo semplici funzionari che eseguono ordini, ma professionisti che si assumono responsabilità e sanno prendere decisioni.
Chi valuterà il lavoro di insegnanti e studenti al termine di quest’interruzione della normalità, che è anche un processo di trasformazione?
E’ triste da dire ma lavoro degli insegnanti come al solito non sarà valutato, perché non esiste ad oggi un metodo per farlo, così come non esiste per i dirigenti. E forse questo è il momento di porre la questione.
Per quanto riguarda gli studenti, se intendiamo per valutazione una sorta di operazione finale di verifica per cui ti dico se hai imparato o non hai imparato, quella avverrà. Bisogna ripensare la valutazione come uno strumento che serve per osservare costantemente i processi di apprendimento e per fornire ai ragazzi uno strumento per capire i propri punti deboli e i punti di forza. Non è un’operazione tra un insegnante-giudice e uno studente-imputato, è una questione formativa.
Quando si pensa alla scuola si è sempre a metà tra la nostalgia per la rigidità di un tempo che non c’è più e la tensione verso un modo totalmente nuovo di concepirla. Che siano il coronavirus e le sue conseguenza la volta buona per immaginare come riprogettarla?
Le due cose devono stare assieme: mi piace un’espressione di Luigi Berlinguer quando dice che la scuola per essere democratica deve essere rigorosa, ma questo rigore non sta nell’utilizzare la valutazione come strumento per dire chi passa e chi non passa; sta nell’imporsi e fare in modo che tutti imparino il più possibile.Preferisco parlare di orientamento. Non siamo più nell’epoca di Gentile in cui si doveva fare la selezione della classe dirigente. Oggi siamo, per fortuna, in una situazione di scuola di massa, in cui tutti frequentano le aule e bisogna fare in modo che tutti imparino il più possibile. Non ci devono essere gli eletti e gli scartati, o si crea un problema enorme di equità soprattutto in un Paese dove l’ascensore sociale è completamente fermo e di norma la selezione premia i figli di chi è già stato selezionato al giro precedente.
Va poi detto che lo stesso rigore che si pretende per i ragazzi va preteso per gli adulti della scuola.
Che cos’è che andrebbe cambiato subito, secondo lei, da questo punto di vista?
Il tema delle carriere . Gli insegnanti dentro la scuola non sono tutti uguali, ma di fatto lo sono da un punto di vista contrattuale. Io ho nella mia scuola 180 docenti, è possibile che siano tutti inquadrati contrattualmente allo stesso modo? Non esistono organizzazioni di questa complessità così gestite. Non riconoscere all’interno della categoria diversi livelli di competenza e responsabilità è sbagliato. In più, per un professore non c’è di fatto, ad oggi, il modo di costruirsi un proprio percorso professionale di crescita: l’unica possibilità di carriera è fare il preside. Il che significa cambiare lavoro: una decisione che molti non prendo perché amano il proprio. I docenti insomma crescono sempre e soltanto su base volontaristica. Sarebbe invece importante avere delle figure che anche formalmente abbiano un inquadramento professionale diverso e possano, per esempio, dedicare parte del proprio orario di lavoro in supporto agli altri colleghi. E’ una cosa che organizzativamente si può realizzare ma non viene mai stabilizzata e riconosciuta.
When in trouble, go big, dice un celebre adagio inglese. Ecco, dovendo sognare in grande, come vorrebbe la scuola del futuro post-Covid?
Sogno scuole realmente autonome che possano assumere le proprie decisioni con responsabilità. E’ assurdo che non si possa avere voce in capitolo sulla selezione del proprio personale: non si capisce come si possa costruire il progetto di un istituto se non si sa chi ci lavorerà.
Sogno una modalità di valutazione per gli stessi istituti e per i presidi. Sogno che le tecnologie non siano un di più, e l’opportunità che stiamo sperimentando lo dimostra.
Vorrei una scuola molto più flessibile rispetto all’organizzazione interna dei tempi e degli spazi, e dei percorsi di studio, con una personalizzazione molto più marcata. Non si capisce perché tutti gli studenti debbano imparare le stesse cose e non si possa pensare a percorsi personali. Forse sogno troppo, ma appunto, ‘when in trouble go big’.
Qual è stato un punto di forza della scuola in questa situazione anomala?
Tutto il mondo della scuola ha avuto un ruolo di sostegno sociale colossale in un tempo così difficile. Per molti ragazzi l’unico ponte col resto del mondo sono stati professori e compagni. Molti dei miei docenti mi raccontano che al termine delle videolezioni ricevono una semplice richiesta: 'prof facciamo due chiacchiere?'
Mi piace l’espressione 'didattica della vicinanza', non 'didattica a distanza'. Credo che gli studenti abbiano molta voglia di rientrare a scuola, e anche quelli che prima non erano così volenterosi, si precipiteranno, dovremo frenarli!