Milano
"L'arte è per tutti": a Monza l'utopia pop di Keith Haring. FOTO
L'Orangerie della Villa Reale di Monza ospita "Radiant Vision", mostra dedicata allo street artist che in pochi anni ha saputo riscrivere le regole dell'arte
"L'arte è per tutti": a Monza l'utopia pop di Keith Haring
"L'arte è per tutti": lo annotava nel 1978 un ventenne Keith Haring appena giunto a New York per inseguire i propri sogni. Ancora non immaginava che nel breve volgere di un decennio - tanto sarebbe durata la sua folgorante parabola artistica - avrebbe con le proprie opere ed il proprio attivismo contribuito più di ogni altro a rendere vera tale affermazione. Il mondo era il palcoscenico del giovane originario della Pennsylvania, ossessionato dal disegno sin dalla tenera età. Le stazioni della metropolitana furono le sue prime gallerie d'arte, in cui iniziarono a proliferare figure e soggetti che sarebbero presto divenuti familiari ai newyorchesi. Il cane che abbaia, il bambino radiante, gli ufo, le teste con tre occhi.
Personaggi che popolavano ed animavano gli interstizi dei luoghi urbani, o che dialogavano apertamente con poster e manifesti pubblicitari. Gli stessi personaggi che, con assoluta naturalezza, attraverso la Galleria Shafrazi avrebbero poi a breve conquistato anche l'establishment artistico ufficiale. Ma non era questa la sola accezione che Haring dava alla sua idea di "arte per tutti": la dimensione pubblica del suo lavoro è sempre andata di pari passo con l'impegno civico ed il pieno ed attivo supporto alle cause alle quali l'artista credeva maggiormente, dalla lotta contro l'Apartheid ai diritti dei giovani, sino alla sensibilizzazione sulla ricerca contro l'Aids.
Haring tra la strada, le gallerie d'arte e le partnership commerciali
Ma la modernità rivoluzionaria di Haring risiede forse soprattutto nel modo in cui ha saputo far convivere e apparire pienamente coerente tale suo impegno civico con una laicissima conoscenza delle logiche del mercato. Si pensi alle collaborazioni con vip e divi dello spettacolo come Madonna o Grace Jones o con brand commerciali come Adidas, Swatch, Absolut. Ma soprattutto all'intuizione dei Pop shop, con i quali Haring è andato a disarticolare il dogma della scarsità di opere che dovrebbe contraddistinguere il sistema dell'arte, in ossequio al principio che il valore sarebbe accresciuto da esclusività e rarità di un determinato prodotto artistico.
La rivoluzione di Haring e il legame con Warhol
La mostra "Keith Haring - Radiant Vision" curata da Katharine Wright con direzione artistica e di produzione affidata a Beside Studio giunge in Italia, all'Orangerie della Villa Reale di Monza, dopo quattro fortunate tappe statunitensi fornendo una efficace panoramica dell'opera di un artista che come pochi altri ha saputo incarnare le esuberanti contraddizioni degli anni Ottanta. Edonismo gioioso e turbolenze sociali, lo spettro dell'Hiv, l'onnipresenza dei brand, un contesto sempre più globalizzato e interconnesso. E quella aspirazione ad un' "arte per tutti" che testimonia lo strano ma persistente legame con un altro decennio, gli anni Sessanta della liberazione, dell'emancipazione, dell'utopia. Ma anche gli anni della Pop Art di Andy Warhol, non a caso mentore e amico del giovane Haring. Ed ambasciatore di un altro rivoluzionario messaggio rivolto al sistema: "Tutto può essere arte". Lo dimostrò con le sue opere, che trasformarono in concretissima prassi le provocazioni dada di Duchamp.
La profondità del solco tracciato da Warhol nella storia dell'arte contemporanea è data dal fatto che una delle più suggestive conseguenze del suo messaggio fu tratta da un artista che sotto quasi ogni punto di vista sarebbe da considerare ai suoi antipodi, quel Joseph Beuys che nel 1974 poteva dichiarare: "Ognuno di noi è un artista". Mettere in fila, una accanto all'altra, le tre dichiarazioni programmatiche dei tre artisti ("Tutto può essere arte", "Ognuno di noi è un artista", "L'arte è per tutti") significa abbracciare e comprendere moltissima parte di ciò che l'arte contemporanea ha cercato di rappresentare. Ed è illuminante che a tenere assieme le tre affermazioni ci sia il medesimo e radicato senso ecumenico, la convinzione che l'arte sia in grado di - ed anzi debba - essere comunione e comunità, che nulla e nessuno le possa risultare estraneo od alieno. Solo in questa piena apertura al mondo essa acquista senso, valore e significato. E pur cambiando ed aggiornandosi, come deve essere, mezzi e linguaggi, l'arte continua dunque a tendere all'assoluto, come è stato nei secoli.
L'eredità di Haring: "Quando sarò morto non sarò davvero morto"
Una continuità che Haring dimostra di sentire propria e di saper rielaborare aderendovi con spirito pienamente postmoderno: il suo stile e le sue immagini sono la quintessenza del pop e della street art - forma espressiva che nasce programmaticamente per non durare - ma nelle sue opere si avverte la piena consapevolezza di voler contribuire a un vivo dialogo con l'arte del passato. Ce lo ricordano alcuni episodi presenti anche nella rassegna monzese. Le sue figure danzanti non possono ad esempio non rievocare alla mente Matisse. Ma eloquenti e suggestivi sono anche i rimandi che conducono addirittura all'arte antica. Su tutti il monumentale "Medusa", l'opera dell'artista più grande mai stampata, un'acquatinta che riprende il mito del mostro dai capelli di serpente capace di pietrificare chiunque con lo sguardo, che nel 1986 Haring aggiorna rendendo la Gorgone una inquietante e dolorosa rappresentazione del flagello dell'Aids.
Il virus portò via l'artista nel 1990, ad appena trentuno anni. Ma nel volgere di pochi anni l'artista aveva saputo gettare semi ampiamente sufficienti a fare sì che la sua stessa opera potesse divenire a sua volta eredità viva per quanti da essa continuano a farsi ispirare. Già nel 1987 Keith Haring poteva profeticamente affermare: "Sono sicuro che quando morirò non sarò davvero morto, perchè continuerò a vivere attraverso tante altre persone".