La caduta di Sesto, Orlando e Renzi, i centristi no logo. L'analisi del 4-0
di Fabio Massa
C'è una linea sottile che lega le sconfitte di Sesto San Giovanni, Monza, Como e Lodi, ovvero le quattro città più importanti della Lombardia dove si è andati a votare per il ballottaggio, tutte e quattro conquistate dal centrodestra. Conquiste a volte eclatanti, e dal grandissimo impatto anche emozionale, come quella di Sesto San Giovanni.
Non era mai caduta, Sesto, dal dopoguerra. La Stalingrado d'Italia aveva retto a tutto. Aveva vacillato, e non poco, nel 1994, quando Berlusconi vinceva ovunque e contro chiunque. A Sesto San Giovanni no. Non vinse. Ce l'ha fatta ora, con un ragazzo, Roberto Di Stefano, che accarezza fin dall'infanzia il sogno di diventare sindaco e che - racconta sua moglie, Silvia Sardone, consigliera comunale a Milano - si è venduto un garage per riuscire a pagare la campagna elettorale. Lui e lei, una bella coppia. Due figli, tanta passione. Anni fa, sotto la pioggia, si misero con il loro banchetto fuori dal Carroponte, dove ai tempi si teneva la Festa dell'Unità. Ci voleva coraggio a immaginarselo e ci voleva coraggio a crederci, nella conquista di Stalingrado. Lato emozionale a parte, oggi la sconfitta di Sesto San Giovanni sarà messa in conto a Matteo Renzi. Eppure, per chi conosce le cose (un po' fumose e di certo molto capziose) del Partito Democratico, non è proprio roba sua, Sesto.
La sindaco uscente, sconfitta, Monica Chittò, era la principale esponente della corrente di Andrea Orlando, che peraltro a Sesto non si è proprio visto. Tutto l'inner circle era costituito da esponenti di sinistra-sinistra, non certo renziani. Non ascriveranno la sconfitta a loro, eppure è la loro. La seconda valutazione politica accomuna, in quella linea di cui si parlava all'inizio, Sesto San Giovanni a Monza, e Monza a Lodi. E' il tema della possibilità di allargamento. A Sesto la mossa vincente di Roberto Di Stefano è stata quella di promettere tre assessori (di cui un vicesindaco) e il presidente del consiglio a Giampaolo Caponi, l'esponente centrista arrivato a quota 24,24 per cento, che sognava di andare lui al ballottaggio e che alla fine ha fatto un apparentamento prezioso per Di Stefano. Stesso discorso di Monza, dove pure Roberto Scanagatti non era certo un renziano, anche se su posizioni decisamente dialoganti. Anche a Monza, l'allargamento al centro di Pierfranco Maffé è stato decisivo per Dario Allevi, il neosindaco di centrodestra. E a Lodi ha passeggiato Sara Casanova, e a Como Mario Landriscina. Tutti con la possibilità di allargare al centro. Certo, non un centro dichiarato, marcato Udc, o Ncd, o in qualunque altro modo. Ma un centro "no logo". Lo chiamano civismo, ma di fatto è un centro senza brand, e quindi più rassicurante, più - ripetiamo l'aggettivo - prezioso in termini di consenso. Il centrosinistra collassa. Poteva andare male, con un 3-1 e Sesto vinta. E' andata peggio, con un 4-0 secchissimo. Ora, in ottica regionali, il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, dovrà fare una riflessione. Pensava di fare un listone di primi cittadini. Eppure tre primi cittadini importanti sono già caduti, e non c'è più tutto questo entusiasmo. Le segreterie metropolitane e soprattutto quella regionale, di Alessandro Alfieri, sono alla ricerca di una spiegazione e di nuovo entusiasmo. Domani proporrà la sua ricetta, Alfieri. Per adesso, rimane l'amaro in bocca e per la sinistra l'immagine di un futuro decisamente poco roseo. Viceversa, il centrodestra viaggia con il vento in poppa, malgrado tutti sappiano che tra il lepenismo di Salvini e la visione di Berlusconi rimane un fossato che solo i sindaci riescono a colmare quando si confrontano nelle elezioni amministrative.
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