Milano
L'arte di Leonor Fini a Palazzo Reale: un racconto contro-corrente del Ventesimo secolo
Al Palazzo Reale di Milano una mostra dedicata ad una artista che ha attraversato la storia culturale europea da una posizione sempre autonoma e personale. Surrealismo e femminismo, libertà e trasformismo nelle oltre cento opere esposte

L'arte di Leonor Fini a Palazzo Reale: un racconto contro-corrente del Ventesimo secolo
Leonor Fini. Un nome relativamente poco noto tra i non addetti ai lavori. E per questo già di per sé motivo di interesse nel momento in cui il Palazzo Reale di Milano decide di dedicarle una importante occasione espositiva. E la curiosità del visitatore viene ampiamente ripagata dalla generosità di spunti, idee, provocazioni, che la mostra meneghina offre.
La vita dell'artista nata argentina, cresciuta a Trieste e poi trasferitasi a Parigi, le sue scelte, il suo pensiero anticonformista, il suo percorso nell'arte e gli incontri che contrassegnarono la sua esistenza consentono infatti di delineare una suggestiva contro-narrazione del Novecento. Che Fini attraversa in una posizione autonoma, agli antipodi rispetto ai protagonisti tradizionali della storia dell’arte. Grandi maestri, nella stragrande maggioranza uomini con biografie segnate da percorsi lineari e riconoscimenti canonici. Fini è stata invece artista errante e poliedrica, senza vincoli a un’unica disciplina o a un solo movimento. Eppure, la sua presenza nelle vicende culturali, artistiche e intellettuali dell’Occidente è stata incisiva e radicata. Suggestivo ed esplicativo ci sembra dunque partire proprio dalla trasversalità della sua traiettoria, e dalla ricchezza delle relazioni che coltivò nella sua vita.

Tutti gli incontri nella vita di Leonor Fini
Fin dalla giovinezza a Trieste, fu vicina al critico e artista Gillo Dorfles e al pittore Carlo Sbisà, che la introdusse ad Arturo Nathan. Nel 1929 espose alla Galleria Barbaroux di Milano accanto a Nathan e Sbisà, e nello stesso periodo frequentò la Pinacoteca di Brera, rimanendo affascinata dagli affreschi di Bernardino Luini. Nel 1931, durante un viaggio a Parigi, fu presentata a Filippo De Pisis, che la aiutò a esporre alla Galleria Bonjean, diretta da Christian Dior prima della sua carriera di couturier. Dior le fece quindi conoscere Elsa Schiaparelli, con cui strinse un sodalizio creativo che portò alla realizzazione della celebre boccetta del profumo Shocking, ispirata alla silhouette di Mae West. Nel 1932 conobbe Pablo Picasso e Max Ernst, e grazie a Max Jacob entrò in contatto con il circolo surrealista, dove incontrò Salvador Dalí, Joan Miró e Leonora Carrington.
Nel 1936 la sua carriera prese una svolta internazionale con la partecipazione alla mostra Fantastic Art, Dada and Surrealism al MoMA di New York. Negli anni Quaranta intrecciò una relazione con il poeta surrealista André Pieyre de Mandiargues e iniziò una collaborazione con Jean Cocteau, condividendo con lui un'affinità per il simbolismo e il teatro. Durante la seconda guerra mondiale si spostò tra Roma e Monte Carlo, frequentando il salotto di Elsa Morante e intrecciando rapporti con Anna Magnani, Mario Praz e Alberto Savinio. Nel dopoguerra consolidò il legame con Federico Fellini, lavorando ai costumi per “Otto e mezzo”, e con Pier Paolo Pasolini, con cui condivise un viaggio a Parigi. Parallelamente, Luchino Visconti la coinvolse nella creazione di costumi per “La Vestale” e “Il Trovatore”. La sua influenza si estese anche alla letteratura, con amicizie importanti come quella con Alberto Moravia, e alla moda, influenzando Yves Saint Laurent. Ognuno di questi incontri, come in un caleidoscopio, è stato un frammento luminoso che ha contribuito a definire la multiforme creatività di Leonor Fini. Fu pittrice, costumista, scenografa, illustratrice e performer. Diva e socialite, sempre in dialogo con le avanguardie del suo tempo, ma senza mai assoggettarsi a nessuna. La sua influenza si estese al cinema, alla moda, alla letteratura, al teatro.
Leonor Fini e Frida Kahlo, tra affinità e differenze
Il suo registro espressivo, che parte dal surrealismo assumendo tuttavia tratti assolutamente personali, la dimensione profondamente autobiografica della sua arte, la consapevolezza orgogliosa di portare una prospettiva femminile in un contesto fortemente maschile e patriarcale, rendono irresistibile un accostamento di Leonor Fini a Frida Kahlo. Ma se l'essenza di Kahlo si radica nella tragedia e nella sofferenza fisica, Fini incarna un’idea di libertà radicale, di trasformazione continua, di costante ridefinizione dell’identità. Aggiungiamo che l'attenzione recente verso il Surrealismo al femminile ha portato alla riscoperta di artiste come Leonora Carrington, Dorothea Tanning e Remedios Varo. Ma se Fini si inserisce a pieno titolo in questa genealogia, anche da questo punto di vista, c'è da rimarcare una peculiarità: il suo rifiuto delle appartenenze e la sua capacità di attraversare linguaggi diversi, che la rendono un caso unico nel panorama artistico del Novecento.
"Io sono Leonor Fini": sfinge, strega, alchimista, guerriera
E veniamo dunque alla mostra "Io sono Leonor Fini", ospitata a Palazzo Reale dal 26 febbraio al 22 giugno. Curata da Tere Arcq e Carlos Martín, si inserisce nel solco delle grandi esposizioni che il museo milanese ha dedicato al Surrealismo e alle donne artiste, mettendo al centro un personaggio che, pur avendo orbitato attorno al movimento surrealista, ha sempre mantenuto una certa distanza critica. Se il Surrealismo ha storicamente esaltato la donna come musa, oggetto del desiderio e della visione maschile, Fini ribalta questo schema, trasformando la figura femminile in protagonista attiva, in creatura ibrida e metamorfica, spesso trasfigurata in sfinge, strega, alchimista o guerriera. La mostra ne esplora la produzione attraverso nove sezioni tematiche, che spaziano dalla pittura al teatro, dalla moda al design, offrendo un ritratto sfaccettato della sua opera.

Il confine del mondo (1948) - Dettaglio
Il percorso espositivo raccoglie oltre cento opere, molte delle quali mai esposte prima, provenienti da collezioni private e dall’archivio dell’artista. Tra i dipinti più rappresentativi, "La Bergère des Sphinx" (1941) è uno dei più emblematici: una pastora circondata da sfingi femminili, immerse in un paesaggio visionario, tra ossa e gusci d’uovo, simboli di metamorfosi e rinascita. In questa tela, l’archetipo della sfinge non è più la dispensatrice di enigmi della tradizione greca, ma una custode del sapere e della conoscenza occulta, in una chiara affermazione di potere femminile.

L'Alcova (Autoritratto con Nico Papatakis) (1941) - Dettaglio
Altro capolavoro è "L’alcova" (1941), in cui Fini rovescia la tradizionale iconografia della Venere dormiente: qui è la donna a dominare la scena, seduta su un uomo nudo, passivo e abbandonato. Un’opera che anticipa di decenni le riflessioni sullo sguardo femminile nell’arte e sulla sovversione dei ruoli di genere. Anche "Donna in armatura" (1938) rientra in questo filone, proponendo una figura femminile ieratica e marziale, vestita di un corsetto metallico che richiama l’iconografia delle amazzoni.
Un altro elemento centrale della sua poetica è il travestimento, che emerge in opere come "Ritratto di André Pieyre de Mandiargues" (1932), in cui il poeta appare ambiguamente vestito, sfidando la distinzione tra maschile e femminile. Fini ha sempre concepito l’identità come una costruzione fluida e mutevole, una continua rappresentazione di sé attraverso maschere, costumi e alter ego. Non a caso, il percorso espositivo include numerosi scatti fotografici che documentano la sua vita, i suoi travestimenti, i suoi giochi di specchi.
Fluidità, identità di genere, femminismo: un'artista oltre il proprio tempo

"Donna in armatura" (1938) - Dettaglio
Pur non essendo esplicitamente legata ai movimenti femministi della sua epoca, Fini ha incarnato una forma di emancipazione radicale, ribaltando gli stereotipi sul ruolo della donna nella società e nell’arte. Il suo rifiuto del matrimonio, la sua relazione aperta con Stanislao Lepri e Constantin Jelenski, il suo modo di abitare il proprio corpo e di rappresentare la femminilità nelle sue opere fanno di lei una figura estremamente contemporanea. La sua frase “Se fossimo veramente liberi, saremmo tutti androgini” è molto rivelatoria del suo pensiero: la fluidità dell’identità di genere, oggi al centro del dibattito culturale, era già al cuore della sua visione artistica.
La mostra evidenzia anche il suo contributo al mondo del teatro e del cinema, con una sezione dedicata ai costumi che realizzò per produzioni come "Tannhäuser" (1963) e per il film “Otto e mezzo” di Fellini. I suoi bozzetti teatrali, esposti accanto ai dipinti, rivelano un immaginario che si nutre di artificio e metamorfosi, confermando il legame profondo tra la sua pittura e la dimensione scenica.
Fluidità dell’identità, potere dell’immaginario, rottura delle convenzioni di genere, rapporto tra corpo e metamorfosi. La mostra milanese, oltre a proporre per Leonor Fini un posto di rilievo nel racconto dell'arte del Novecento, è anche un sentito omaggio ad una autentica anticipatrice di tematiche oggi di straordinaria attualità. Una figura di creativa portatrice di una visione dell’arte e della vita che oggi risuona presente come non mai.