Milano, a place to be (maybe)
Nobili milanesi in terra toscana. Ferrari Ardicini: “Il nostro vin santo da premio. Milano? The Place to be”
di Fabio Massa
La famiglia è di quelle nobili, anzi, nobilissime. Governatori del Lago d’Orta per conto del Ducato di Milano per oltre due secoli, quella dei conti Ferrari Ardicini è una famiglia che non si è seduta sugli allori. Anzi, è in alcune delle realtà imprenditoriali più in vista a Milano (ad esempio, la De Agostini) e ha la proprietà e la gestione della Tenuta Colle Alberti. Affaritaliani.it ha intervistato Giulio Cesare Ferrari Ardicini sul Chianti, sulla conoscenza del vino, su quanto Milano può essere “the place to be”… LEGGI LE INTERVISTE DELLA RUBRICA THE PLACE (MAYBE) TO BE
Giulio Cesare Ferrari Ardicini, parliamo di vino. E quindi parliamo di Milano.
Diciamo che l’azienda è in Toscana, ma Milano è il nostro mercato più importante.
Ma a Milano c’è una vera cultura del vino?
Allargo il quadro: in Italia c’è tanta cultura del vino. A livello di produzione siamo i numeri uno al mondo. Ma a livello di conoscenza si potrebbe fare molto. Anche perché i vitigni italiani sono storici. Tanto per dirne una: il Sangiovese ha un’origine latina. Ci sono vitigni conosciuti fin dall’epoca romana. In Italia il vino ha una lunga storia.
Eppure la conoscenza…
Diciamo una cosa: negli ultimi 10 anni è stata fatta molta attività di divulgazione sul vino. Dai corsi alla televisione, dalle serate ai programmi. In maniera conviviale tutti si divertono a parlare e a far finta di conoscere il vino. Poi, nel dettaglio, la conoscenza tecnica è un’altra cosa. A livello amatoriale c’è un’ottima conoscenza, però. Anche se poi molti comprano ancora sull’etichetta e sul sentito dire.
Da esperto produttore, c’è un modo per non comprare un vinaccio anche senza saperne?
Alla fine il buon senso e la regola è quella di guardare il prezzo. Io diffido molto dei vini sotto i tre euro. Su una fascia tra i 5 e i 10 euro si compra molto bene. Oltre i 10 sono quasi tutti buoni. Questo ci differenza molto dalla Francia dove i prezzi sono molto più elevati.
Parliamo della sua azienda. Il cuore a Milano e il vigneto in Toscana, no?
L’azienda si chiama Tenuta di Colle Alberti, e la mia famiglia l’ha acquistata nel 1819. Siamo vicini ai duecento anni: tra quattro anni faremo una grandissima festa. La storia dell’azienda è particolare. Nel 1100 è stata fondata dai Conti Alberti, una famiglia longobarda che aveva molti possedimenti nella zona di Prato. Poi ci sono state varie traversie, finché la mia famiglia compra l’azienda da una famiglia nobile spagnola. Inizialmente l’idea era di coltivare gelsi per i bachi da seta. In questo senso i miei antenati avevano un’azienda a Caponago, vicino ad Agrate Brianza. E pensavano di replicare il business in Toscana.
Invece?
Dopo tre o quattro anni si sono accorti che era meglio andare avanti a produrre vino. E così abbiamo fatto negli ultimi 200 anni.
Quanto è grande oggi l’azienda?
Stiamo parlando di 230 ettari con una produzione di 340mila litri di vino. Potenzialmente, circa 400mila bottiglie. Oltre al vino produciamo olio e abbiamo un agriturismo. Sui vini abbiamo deciso di puntare solo e unicamente sulla Toscana: quindi solo vitigni autoctoni e solo preparazioni che non prevedano tagli con altri vini, magari francesi. Noi produciamo ogni cosa che poi vendiamo. Le nostre vigne sono Sangiovese, Cannaiolo e Colorino. Tutti vitigni autoctoni. Sui vitigni bianchi abbiamo il Trebbiano e il Malvasia. Produciamo il “Bianco d’Uva” e due diverse etichette di Vin Santo. A livello di fatturato siamo intorno ai 500mila euro all’anno e siamo quasi sempre in pareggio…
Con il vino si guadagna?
Noi facciamo tutto con i nostri vigneti, non compriamo nulla né all’Italia né all’estero. Non abbiamo una struttura commerciale vera e propria, vendiamo con le nostre forze a clienti privati circa 10mila bottiglie all’anno. Vendiamo un po’ online su euvino.it, e abbiamo un unico distributore che lavora soprattutto a Milano.
I milanesi ne capiscono di vino?
Sì, mediamente il milanese di vino ne capisce. E soprattutto al milanese piace spendere su una buona bottiglia di vino.
Expo ha aiutato il vostro business o è stato irrilevante?
Per noi, abbastanza irrilevante. Per la cultura media invece è stato molto interessante e poi credo che l’indotto ha registrato percentuali in crescita a livello di consumi.
Con Expo si dice che oggi Milano è “the place to be”?
In Italia sicuramente sì, è vero. Se mi confronto sull’estero, visto che mi occupo anche di editoria, il discorso cambia. Milano è un po’… “stretta”.
In che senso di “stretta”.
Parlo di Inghilterra, di Giappone, di Hong Kong, di Tokyo. Vedo dei dinamismi completamente diversi. L’Italia è un Paese dove siamo molto bloccati. Milano sta marciando. Però non siamo ancora fuori dalla crisi.
Mi dica una cosa negativa sulla città, da cittadino.
Sulla città io sono molto arrabbiato su Area C. Il fatto che debba tornare a casa e pagare è una cosa incredibile.
Torniamo al vino.
Ecco, appunto. Parliamo di vino. Di vin santo, magari.
Perché?
Perché è una delle nostre specificità: lo facciamo in base a una ricetta conosciuta dal nostro vecchio fattore che ha 85 anni. Siamo un’azienda molto familiare e gelosa di certe tradizioni. Le uve sono messe a passire appese un grappolo dopo l’altro, a mano, a rastrelliere fatte di giunchi. Dopo tre mesi lo si spreme. Poi viene messo in questi caratelli di legno di castagno. Per tre anni deve essere tenuto in alto, deve subire gli sbalzi termici. Molto evapora. Ma quello che resta… Abbiamo vinto premi nazionali e internazionali con il nostro vin santo.
@FabioAMassa