Milano
Munch oltre l' "Urlo": la mostra al Palazzo Reale di Milano
La mostra milanese "Munch. Il grido interiore" racconta il percorso di un artista fondamentale per la storia dell'arte contemporanea. Anche al di là del suo celeberrimo “Urlo”
Munch oltre l' "Urlo": la mostra al Palazzo Reale di Milano
Nella storia dell'arte occidentale ci sono alcuni primati che possono essere in modo piuttosto incontestabile riconosciuti ad Edvard Munch e che rendono del tutto singolare la figura dell'artista norvegese. In parte condizionando anche il discorso attorno al suo status. In primis, è difficile trovare un altro artista il cui nome sia nell'immaginario collettivo così strettamente legato ad una singola opera. Munch e il suo “Urlo”, un binomio più forte persino di quello di Leonardo e della Gioconda. In secondo luogo, nessuno come lui ha saputo anticipare di anni lo spirito della prima metà del Novecento, incarnandone con i propri dipinti e le litografie in modo quasi profetico le inquietudini, le idiosincrasie, i tormenti interiori, le oscure pulsioni, lo scavo tra le pieghe di inconscio e subconscio. Terzo, l'enorme popolarità di cui gode oggi - anche per le rocambolesche vicende dei due furti e altrettanti ritrovamenti avvenuti negli ultimi trenta anni - il suo “Urlo”, opera iconica per antonomasia. Immagine tradotta e ricontestualizzata in innumerevoli e disparati contesti. Citata, omaggiata spesso in chiave ironica e post-moderna, memizzata come pochissime altre. Immediatamente riconoscibile anche da chi non ha mai messo piede in un museo d'arte.
“ Munch. Il grido interiore”, la mostra milanese
L'enorme impatto dell' “Urlo” sulla cultura contemporanea condiziona e distorce in qualche modo la nostra percezione su quello che è stato nel suo complesso l'artista Munch, al di la di quella che è la sua opera di gran lunga più nota? La grande mostra ospitata al Palazzo Reale di Milano sino al 29 gennaio 2025, a quasi quaranta anni dalla precedente occasione espositiva nel capoluogo lombardo, costituisce una preziosa occasione per provare a rispondere a questa domanda.
Un primo significativo indizio giunge già dal nome dell'esposizione, curata da Patricia G. Berman: "Munch. Il grido interiore". Non dunque un richiamo diretto all' “Urlo” (di cui è esposta una delle versioni in litografia), ma una formula che ad ogni modo si serve di un sinonimo, a rimarcare sin da subito l'identità forte tra l'autore ed il suo dipinto. E l'universo espressivo che esso evoca. E dunque, cominciando a sviluppare il tema che abbiamo introdotto: l'impressione che la mostra ed il catalogo rinforzano è che il titolo di pittore delle inquietudini appartenga a buon diritto a Munch. Anche prescindendo dal suo capolavoro, che pure rappresenta il momento di più emblematica sublimazione delle sue tensioni di uomo e artista.
Sono le parole con cui Munch stesso racconta se stesso a orientare verso questa direzione. “Nella mia casa di infanzia abitavano malattia e morte. Non ho mai superato l’infelicità di allora". Ed ancora: "La malattia fu un fattore costante durante tutta la mia infanzia e la mia giovinezza. La tubercolosi trasformò il mio fazzoletto bianco in un vittorioso stendardo rosso sangue. I membri della mia cara famiglia morirono tutti, uno dopo l’altro”. La perdita prematura della madre e della sorella, la tragica morte anche del padre, una tormentata relazione con Tulla Larsen, un traumatico incidente,l'alcolismo, il crollo psicologico ed i molteplici ricoveri in sanatori e cliniche private. La biografia dell'artista norvegese è punteggiata di momenti di crisi, lutti, cadute sino all'orlo del precipizio e faticose risalite.
Munch interprete del malessere esistenziale del Novecento
Molte delle sue opere riflettono fedelmente, in modo quasi disturbante, il suo intimo travaglio. Dagli esordi con influenze ancora impressioniste e post-impressioniste alla stagione simbolista, sino alla maturazione di un linguaggio precocemente espressionista, il più idoneo ad esprimere angosce e sofferenze, ma anche a rielaborare traumi personali e disagi psichici. Anche attraverso la sua vasta e radicale produzione grafica. Ecco dunque brillare di nera luce gioielli come "Madonna", di cui a Milano è possibile ammirare una litografia stampata a colori, in cui convivono Eros e Thanatos, sacro e profano. L'immagine probabilmente più nota di Munch, dopo l' “Urlo”. Le atmosfere oniriche di "Visione" (1892) portano chi si avvicina al dipinto in un luogo sospeso tra vita e morte, realtà e inconscio. "La morte di Marat", del 1907, sembra evocare con crudezza il noto episodio storico dell'assassinio del politico francese, ma la figura di donna nuda dai capelli rossi in primo piano che guarda dritto negli occhi l'osservatore pare più provenire dalla tormentata biografia sentimentale dell'artista. “Autoritratto all'Inferno” (1903) è nella sua evidenza opera tanto letterale quanto simbolista. Altri titoli come "Malinconia" (1891), "Disperazione" (1894), "Lotta contro la morte" (1915), "La morte nella stanza della malata" (1893) parlano da soli. E vanno senza dubbio a confermare la legittimità del percorso critico che ha reso Munch l'interprete per antonomasia del malessere esistenziale del Novecento.
L' “altro” Munch in mostra a Palazzo Reale
Ma la mostra milanese consente di arricchire e complicare questa storicizzazione. Restituendo anche un altro Munch. Quello di "Le ragazze sul ponte", ad esempio. Opera che appartiene già alla maturità (è datata 1927) e che rappresenta una deliziosa oasi di pace, dal brio quasi fauve. Immagine peraltro suggestivamente speculare, nella costruzione prospettica, all' “Urlo”. Del quale costituisce un contraltare di serenità e gaiezza. Così come la rappresentazione dell'amore e della sessualità non è per il norvegese esclusivamente tormento, concupiscenza e perdizione. "Un braccio forte e nudo; un collo possente e abbronzato; una giovane donna che reclina il capo sulle curve del seno. Chiude gli occhi ed ascolta con labbra aperte e tremanti le parole che lui sussurra nei suoi capelli lunghi e sinuosi", scriveva già nel 1890 nel “Manifesto di Saint Cloud”. Invocando la "santità" e la "grandiosità" dell'unione tra uomo e donna. Un dolce e passionale trasporto che ritroviamo in opere come "Bacio vicino alla finestra" (1891) o "Coppie che si baciano nel parco" (1904).