Milano
Quintini, dagli Usa al Policlinico di Milano: il super-chirurgo che il mondo ci invidia
Intervista esclusiva al professor Cristiano Quintini, nuovo Direttore della Chirurgia Generale – Trapianti di Fegato al Policlinico di Milano
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Cristiano Quintini
Quintini, dagli Usa al Policlinico di Milano: il super-chirurgo che il mondo ci invidia
Cristiano Quintini è il nuovo Direttore della Chirurgia Generale – Trapianti di Fegato del Policlinico di Milano. Dopo vent’anni all’estero tra Stati Uniti ed Emirati Arabi, torna in Italia per contribuire al Policlinico e all’Università degli Studi di Milano e si racconta ad affaritaliani.it. Specializzato in Chirurgia Generale a Modena, ha proseguito la formazione a Miami e alla Cleveland Clinic, dove ha diretto programmi di trapianti epatici e intestinali. Negli ultimi anni ha guidato l’Istituto per le Malattie Digestive alla Cleveland Clinic di Abu Dhabi. Esperto in chirurgia epatobiliare e trapianti complessi, ha sviluppato tecniche avanzate come la chirurgia robotica e i trapianti da donatore vivente. Il suo ritorno si inserisce in un periodo di rinnovamento del Policlinico, segnato dal contributo di figure di spicco come Paolo Muiesan e Lucio Caccamo.
Dottor Quintini, ben rientrato in Italia e ben arrivato al Policlinico. Come descrive i suoi primi giorni a Milano?
Devo dire che il rientro è stato molto positivo. Mi sono trovato in un ambiente accogliente, con professionisti di altissimo livello e un forte spirito di collaborazione. Certo, ci sono differenze rispetto agli Stati Uniti, dove avevamo sistemi informatici avanzatissimi per ottimizzare la gestione dei pazienti. Tuttavia, vedo grandi potenzialità anche qui, soprattutto in questa nuova fase di rinnovamento del Policlinico.
Come vede il nuovo ospedale che aprirà tra qualche mese?
Se dovessi descriverlo con tre aggettivi, direi: bello, ben organizzato e tecnologicamente avanzato. È stato progettato con cura, coinvolgendo i professionisti nei processi decisionali. Questo ha rafforzato il senso di appartenenza e la consapevolezza di avere tutti gli strumenti e le condizioni per offrire cure e assistenza ad altissimo livello per ogni paziente.
Cosa l’ha convinta a tornare in Italia dopo tanti anni?
Ho voluto unire l’esperienza internazionale alla possibilità di costruire qualcosa qui in Italia, considerando anche le esigenze della mia famiglia. Ha contato molto il fatto che sia il Policlinico sia l’Università degli Studi di Milano hanno investito moltissimo nell’innovazione. Il nuovo ospedale sarà uno dei centri più moderni e avanzati d’Europa, segnando anche un profondo cambio di passo nel modo in cui ricerca scientifica e cura vengono integrate. Volevo essere parte di questo momento.
Perché è andato all’estero? È un passo necessario per la formazione e la carriera?
Non è corretto generalizzare, però nella mia situazione, nel 2004, dopo gli studi a Bologna e poi a Modena per la specialità, gli Stati Uniti si sono rivelati un catalizzatore inimmaginabile in termini di accelerazione della mia formazione. Ho avuto il privilegio e la fortuna di imparare dai migliori chirurghi del mondo. Quelle esperienze mi hanno dato molto più di quanto avessi immaginato, sia in termini di competenze che di visione. Tutto quello che potevo sperare che gli Stati Uniti mi offrissero me lo hanno dato abbondantemente e in surplus. Famiglia compresa. Successi lavorativi e personali condivisi e creati con mia moglie, anche lei chirurga dei trapianti di fegato.
Qual è la sua opinione sul sistema sanitario italiano?
Penso che il sistema sanitario viva un momento complesso e cruciale per il suo futuro. È innegabile che ci siano sfide significative, ma vedo segnali di coraggio e innovazione, soprattutto in strutture come il Policlinico di Milano. Questi sono periodi in cui bisogna prendere decisioni strategiche per crescere.
Be’, coraggioso rientrare ora… Parliamo del trapianto d’utero, una frontiera affascinante della medicina. Quali sono i principali benefici?
È un’innovazione che ridà speranza a chi pensava di non poter avere figli, per donne nate senza utero o che lo hanno perso per cause oncologiche o emorragie gravi. Una volta completata la gravidanza – solitamente dopo uno o due bambini – l’utero viene rimosso per evitare rischi legati ai farmaci immunosoppressori. Questo approccio consente di trasformare una diagnosi di infertilità in una vita piena di nuove possibilità familiari. Negli USA ho contribuito a ben 8 trapianti in utero e ho visto dare alla luce 5 bambini. Un traguardo impensabile fino a pochi anni fa. Questo tipo di innovazione cambia davvero le vite delle persone. Il messaggio è che la scienza sta aprendo nuove strade. Quello che ieri sembrava impossibile, oggi è realtà.
Qual è lo stato attuale del trapianto d’utero in Italia?
In Italia c’è stato sinora un solo caso, con la nascita di una bambina nel 2022. Il nostro obiettivo ora è rendere questa procedura sempre più accessibile e integrata in percorsi clinici multidisciplinari. Il lavoro di squadra, per definizione, è fondamentale per il successo di questi interventi che vedono il coinvolgimento di oltre 15 specialità, garantendo la presenza di tutti i professionisti necessari. Attendiamo gli ok a procedere del Ministero. Il Policlinico di Milano, inoltre, con la sua storica Clinica Mangiagalli è un punto di riferimento in ambito ostetrico-ginecologico: è quindi il posto ideale.
Oltre ai trapianti salvavita, lei ha parlato del trapianto come strumento per curare il cancro. Ci spiega meglio?
Certamente. Finora, i trapianti sono stati utilizzati per trattare condizioni come insufficienza d’organo, ma oggi rappresentano una nuova arma contro i tumori. Ad esempio, in alcuni pazienti con tumori epatici avanzati o considerati inoperabili, il trapianto di fegato può offrire una possibilità concreta di cura. Questo approccio sta diventando sempre più rilevante grazie ai progressi nella chirurgia e nella terapia immunosoppressiva, in particolare in pazienti con tumore epatico (HCC), con metastasi epatiche da cancro del colon-retto, con tumori delle vie biliari e neuro-endocrini.
Esistono altre tecnologie che stanno cambiando il panorama del trattamento oncologico?
Sì, stiamo vivendo un momento trasformativo. Tecnologie come la chirurgia robotica, i sistemi di perfusione d’organo e le terapie mirate stanno ampliando ciò che possiamo fare. Un esempio è l’uso della perfusione ipertermica intraperitoneale (HIPEC) per trattare tumori addominali avanzati, combinando la rimozione chirurgica con l’applicazione di farmaci chemioterapici direttamente sulla zona interessata, riducendo le recidive.
Quali sfide si incontrano nel rendere queste innovazioni una realtà clinica diffusa?
Le principali sfide sono di tipo organizzativo e formativo. Serve un investimento nella formazione dei medici e dei chirurghi, ma anche nella sensibilizzazione del pubblico. Non tutti sanno che oggi possiamo curare tumori che un tempo erano considerati inoperabili. È cruciale informare i pazienti e la comunità medica sulle nuove opportunità terapeutiche.
Che consiglio darebbe ai giovani medici?
Investite sulla vostra formazione, anche andando all’estero se necessario. Non si smette mai di imparare, e ogni esperienza contribuisce a costruire la vostra competenza e resilienza.
L’ultimo libro letto?
Un libro di psicologia infantile su come crescere bambini felici. Mi ha colpito l’importanza della connessione e della comprensione delle esigenze uniche di ogni bambino. Ho tre figli e sento il tema vicino, ma penso che questo principio valga anche nel mondo del lavoro, soprattutto se si lavora in team.
Come vede il ruolo dell’inglese nella formazione medica?
È essenziale. Molti dei migliori studi, conferenze e corsi sono in inglese.
Un’ultima domanda: come descriverebbe il suo lavoro in tre parole?
Innovativo, sfidante, umano. In inglese diremmo “top”!