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Reddito di cittadinanza, le proposte di Assosomm per riformarlo

Reddito di cittadinanza, le proposte di Assosomm per riformarlo

È ormai largamente condivisa l’idea che il Reddito di Cittadinanza vada profondamente ripensato, principalmente per renderlo più equo e orientato al lavoro. Anche il Governo, con la proposta di istituire il MIA, Misura di Inclusione Attiva (che a luglio 2023 prenderà il posto del RDC) va proprio in questa direzione. Partendo da alcuni dati di analisi, la nuova ricerca Censis Assosomm ha messo in luce due aspetti critici del RDC su cui intervenire:

    1) Il Reddito di Cittadinanza ha favorito soprattutto le famiglie monocomponenti non anziane (quindi, di fatto, gli occupabili)

    2) Il Reddito di Cittadinanza non ha previsto formazione professionale

Dall’analisi del Censis, emerge che, a fine 2022, i percettori di Reddito o di Pensione di cittadinanza (che è poi lo stesso strumento, ma applicato a persone di età diverse), erano così composti: al 9% anziani soli; al 22% persone con familiari a carico; al 31% genitori con figli minori; e ben al 37% persone sole in età lavorativa (con meno di 67 anni). Questo significa che la categoria più sostenuta dal RDC era formata da persone potenzialmente produttive (occupabili) e senza figli.

Il RDC ha favorito le famiglie monocomponenti non anziane

Anche per quanto riguarda gli importi del RDC, lo sbilanciamento sembra evidente. Mediamente una persona in età lavorativa senza familiari a carico percepiva come RDC €453 euro al mese; mentre chi aveva figli minori a carico percepiva mediamente € 683 euro (€594 per chi aveva solo un figlio e €743 per chi aveva 5 figli o più). Tutto ciò ha generato, specie nelle giovani generazioni, dei fenomeni di “passività psicologica” che tutti conosciamo.

“Alla luce dei dati - ha dichiarato Rosario Rasizza, Presidente di Assosomm – ci appare necessaria una più corretta individuazione dei beneficiari per rendere lo strumento più mirato alle categorie maggiormente bisognose. Il Reddito di Cittadinanza, inoltre, non ha previsto formazione professionale la quale è, invece, alla base delle Politiche Attive del lavoro. Il MIA, per funzionare, dovrà viceversa partire proprio dalla formazione professionalizzante, proprio come quella proposta dalle Agenzie per il Lavoro come base abilitante di un processo solido e virtuoso di occupabilità del capitale umano”.

Investire in formazione: una strategia sempre più perseguita

Eppure, la formazione è uno dei cardini delle Politiche Attive del lavoro: oggi circa il 70% delle imprese italiane (con almeno 10 dipendenti), prevede attività di formazione professionale, con un incremento dell’8% rispetto a 5 anni fa, segno che investire in formazione è una strategia in cui si crede sempre più; annualmente vengono spesi €6,2 miliardi di euro per la formazione in azienda e si tratta per la maggior parte di risorse private. Altro dato significativo è che i corsi “in aula” diminuiscono, mentre la formazione sul lavoro (la cosiddetta formazione on the job) è aumentata del 10% nell’ultimo anno.

Per quanto riguarda invece, più specificamente, il mondo delle Agenzie per il Lavoro, nel solo 2022, sono state erogate oltre 2 milioni e mezzo di ore formazione completamente gratuite per gli allievi. Questo significa che, per il tramite di un’Agenzia per il Lavoro, più di 355mila persone hanno potuto accedere gratuitamente a uno dei quasi 60mila percorsi professionalizzanti strutturati e proposti.

De Rita (Censis): "La formazione professionale ha anche un valore psicologico"

“La formazione professionale (e sempre più quella sul posto di lavoro) ha anche un valore psicologico – commenta  Giulio De Rita (ricercatore Censis): è in grado, cioè, di rimettere in gioco il lavoratore che altrimenti si sente ai margini del mondo del lavoro. Lo si capisce osservando il dato di placement di medio periodo: mediamente, infatti, dopo 1 anno circa il 25% di coloro che hanno fatto il corso di formazione si trova ancora presso la stessa azienda; percentuale che sale al 35% per coloro che sono passati per un’Agenzia per il Lavoro. Ma la cosa curiosa – chiosa De Rita - è che più della metà del totale se ne sono andati spontaneamente perché, probabilmente, hanno fatto fruttare subito questa formazione on-the-job re-inserendosi nel mondo del lavoro, ma in un’altra azienda.

Questo dato prova due cose: la prima è che la formazione on the job è essenziale per entrare o rientrare nel mondo del lavoro. La seconda è che quel tipo di formazione non vincola necessariamente a lavorare nell’azienda che ha formato, ma permette di accedere con più fiducia al mercato del lavoro, scatenando nuove energie nelle persone.”

Quali sono le aziende che stanno investendo maggiormente in formazione

Ecco altri dati interessanti:

Le aziende che stanno facendo uno sforzo maggiore in formazione, sono, dopo quelle finanziarie, le aziende fornitrici di servizi luce, telefonia e gas, ma anche il settore delle costruzioni (grazie al 110%): più dell’80% di queste ultime ha infatti investito in formazione.Sotto la media, invece, il tessile e la ristorazione.

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