Milano
Renzi, il Pil da "zerovirgola" e la via milanese alla crescita
L'analisi di Franco D'Alfonso
di Franco D'Alfonso
Matteo Renzi si ricorda certamente il cartello che l’allora candidato democratico Bill Clinton aveva attaccato dietro la propria scrivania per ricordare come, simpatia o meno, a decidere delle sorti politiche di un leader moderno era ed è lo spessore virtuale del portafogli dei propri elettori. Se ne ricorda, ma forse ha sperato che il vecchio Bill non dovesse averle azzeccate sempre tutte e così, di fronte alle previste difficoltà della finanziaria del novembre 2016, ha tentato di poter parlare d’altro, di buttarla sulle “riforme più belle del mondo” ed ha puntato tutto sul referendum che si terrà nello stesso periodo. Azzardo non riuscito, come non riuscì ad alcuni illustri predecessori come il generale De Gaulle, che chiuse la propria carriera proprio su un referendum costituzionale basato sul consueto “o così o il caos" quando era in realtà logorato dalla crisi economica innescata dalle lotte operaie e studentesche: infatti il premier si trova in queste settimane a cercare di cambiare la “narrazione” gollista in salsa fiorentina ma, soprattutto, a dover scendere in campo aperto proprio sul solito noioso, difficile eppure sempre decisivo piano economico.
Lo ha fatto come al solito molto bene sul piano della comunicazione, con l’invenzione delle “30 slides per 30 mesi" che ai più anziani ricorda inevitabilmente l’improbabile “7 chili in 7 giorni” del film di Pozzetto, sconosciuto però alla gran parte del popolo di twitter, facebook e via cinguettando che è l’interlocutore privilegiato del premier. I numeri proposti, pur nella genericità di un indefinito “prima” e di un immaginifico “adesso”, fanno intendere che qualcosa si è mosso: 600mila lavoratori a tempo indeterminato in più nell’ultimo anno e mezzo è indubbiamente il dato esemplificativo più significativo e che segna il successo, seppur congiunturale, di una delle più importanti leggi proposte da Renzi, il cosiddetto “jobs act”.
Il resto dei dati esposti, fuori dal trascinamento dei 600mila, indica ad occhi anche non esperti che più che una vittoria sul campo si sta parlando al più di un faticoso pareggio in casa che ci espone ai rischi di una trasferta sui campi del Nord Europa molto, molto difficile. Fuori di metafora calcistica, il complesso degli interventi che un po’ avventatamente è stata etichettata da qualcuno come “Renzinomics” , non ha dato i risultati sperati. Le misure per rilanciare la crescita attraverso una spinta ai consumi, dagli 80 euro all’Imu prima casa alla riduzione più grande del secolo delle tasse, non ha dato alcun risultato concreto: lo zerovirgola del Pil, il rispetto dei parametri europei e poco altro sono costati qualche decina di miliardi ricavati interamente dall’aumento del debito a tasso zero, senza che la ripresa economica partisse in alcun modo. Nemmeno i singoli provvedimenti hanno dato dividendi nel proprio campo di azione : non c’è stato incremento del consumo della pizza familiare fuori casa né il mercato immobiliare ha avuto alcuna scossa positiva dall’epocale abolizione della tassa sulla prima casa.
La scelta di distribuire pochi soldi a molti ha penalizzato la capacità di investimento, sia pubblici che privati, e ci ha mantenuti stabilmente nella posizione di ultimo vagone della Ue, per di più sempre con il rischio perenne del debitore che subisce l’impatto della risalita dei tassi senza possibilità di difesa a causa dell’ammontare della massa debitoria. In buona sostanza, Renzi ha utilizzato male se non sprecato una serie di opportunità, molte delle quali procurate proprio dalla sua energica azione iniziale, esattamente come fece Berlusconi che gettò al vento tutto le opportunità sui tassi garantite dagli anni di inizio euro.
Questo cattivo utilizzo deriva da una impostazione di politica economica comune a Renzi, Berlusconi ed a tutto il mainstream di fine millennio, quello che si inventa una Thatcher grande economista e faro anche a sinistra, che pensa che spesa pubblica sia sinonimo di spreco, che punta sulla grande forza del “taglio delle tasse”. Una politica che non ha mai, dico mai, dato alcun risultato concreto e che incredibilmente ha superato perfino errori insostenibili come quello della tabella excel di Rogoff e Reinhart ( ma anche, strano vizio comune, di Silvia Ardagna ed Alberto Alesina all’Ecofin del 2010) senza che nessuno dicesse loro di accomodarsi gentilmente alla porta.
Il taglio delle tasse inteso come misura di politica economica e non di equità e la riduzione della spesa pubblica slegata dalla logica di efficienza producono esattamente quello che hanno sempre prodotto, dalla Grande Depressione, alla distruzione della classe media nel Sudamerica anni 70 ai danni ripetuti sempre in Sudamerica dai “Chicago boys” all’economia Usa al tempo di Bush padre e soprattutto figlio : un aumento della concentrazione della ricchezza in una percentuale sempre più ristretta di popolazione , la crisi della classe media, l’aumento della povertà sia in termini sia assoluti che percentuali nelle economie più avanzate.
Un’altra via esiste ed è quella del sostegno degli investimenti innestati da un grande investimento pubblico a gestione pubblica (necessaria, ovviamente se fatta bene e corretta, per non trasformarsi in una distribuzione discrezionale di risorse ed opportunità) come è stato Expo Milano: 1,5 miliardi di euro che hanno attratto 2 miliardi di investimenti privati ed hanno portato, molto semplicemente, all’incremento del Pil metropolitano nel solo 2015 di 1,8 punti, mentre la media nazionale si arrabatta intorno allo zerovirgola.
Investire sulle città e sui servizi urbani per creare “ecosistemi” produttivi in grado di svolgere il ruolo di locomotiva svolto in passato dalle grandi imprese, in una versione moderna del keynesismo (che non è comunismo, sapete?): per giocare la partita vera, quella dell’economia, Matteo Renzi deve “cambiare verso”, come diceva giusto trenta mesi fa.
tratto da www.movimentimetropolitani.it