“Sicurezza? Non c’è emergenza". Criminologo, omicidi ai minimi
Esiste davvero un'emergenza sicurezza a Milano? Il criminologo ed ex segretario metropolitano del Pd Roberto Cornelli dice di no. Ecco perché
Chiunque si dovesse trovare ad andare in Stazione centrale a Milano alle cinque del mattino si aspetterebbe di essere aggredito, rapinato o stuprato. Questo è il racconto che la tv e la politica sta portando avanti da anni e che si sta facendo largo nella mente delle persone. Il buio, la strada deserta e una minaccia dietro ogni angolo, questo è ciò che ci si aspetterebbe dando retta al racconto.
Poi si intraprende questo viaggio. 300 metri e ancora nessuno ha cercato di derubarvi o di attentare alle vostre virtù. Però magari vi trovavate ancora su un viale ben illuminato, c’era la stazione dei taxi e qualche bar alzava la serranda, ma girato l’angolo inizieranno i problemi. Ed invece va tutto liscio, appare il piazzale della Stazione. Siete sani e salvi.
Ecco, la paura del crimine, reale o percepita, avvertita o fabbricata, è il nostro “reale”. È al contempo uno scenario condiviso ed un tema privilegiato. La politica e il dibattito pubblico hanno, infatti, circondato le nostre giornate di paura. Secondo innumerevoli declinazioni: la fine del mondo per i cambiamenti climatici, il migrante assassino e stupratore, l’operaio del gas che ci vuole rubare tutti i nostri averi. Ogni discorso è ormai declinato in questa chiave di lettura. Anche una semplice passeggiata ad un orario un po’ insolito diventa fonte di terrore.
È una paura sempre reale? C’è davvero un problema di sicurezza?
«I dati dicono che non c’è un problema sicurezza» rassicura Roberto Cornelli, docente di criminologia all’Università di Milano- Bicocca ed ex segretario metropolitano del Pd. «Siamo un paese con una criminalità medio bassa».
Cioè nessuno mi accoltellerà tra casa e la stazione?
«Per quel che riguarda gli omicidi si può notare una diminuzione costante, nel 2014 sono arrivati ad essere 0,8 omicidi ogni centomila abitanti”.
Ma gli italiani si sentono sicuri?
«Dipende. Se si domanda allo stesso individuo:” hai paura ad uscire di casa?” oppure “crede che in Italia ci sia un grosso problema di criminalità e sicurezza?” le risposte sono spesso opposte. Nel primo caso l’80% delle persone intervistate risponde di non aver paura. La seconda domanda invece mostra che le stesse persone si fanno condizionare da ciò che sentono dire e da quello che è il giudizio intriso di pregiudizi formati da campagne elettorali, servizi televisivi e giornalistici».
Già, molto dipende dal modo in cui poniamo le domande: è quello che gli scienziati cognitivi o i teorici della comunicazione chiamano il problema del “frame”, della cornice concettuale attraverso la quale ci rappresentiamo e guardiamo ai problemi. Quindi non abbiamo, veramente, così tanta paura?
«Tra il 1993 e il 2014 la percezione di sicurezza tra le famiglie italiane è rimasta costante. Le famiglie che hanno dichiarato di percepire un rischio criminalità alto o abbastanza alto sono rimaste intorno al 30%. Anche in momenti di campagne molto aggressive, come quella del 2008, si è avuto un incremento nel senso di insicurezza, ma non ha mai superato quota 35%. Questo significa che il tema della paura è costruito culturalmente. Non è solo timore delle persone, ma c’è un discorso pubblico che spinge in questa direzione».
È stato il dibattito intorno alla paura di qualcosa a creare la percezione diffusa di questo timore?
«Il discorso pubblico non coincide con la percezione, perché la percezione degli italiani è invariata. Al contrario il discorso pubblico sulle paure si è fatto più insistente. Il tentativo è stato quello di generare paure parlando della sicurezza come se fosse l’unico problema dell’Italia negli ultimi 20 anni. E questa non è né la percezione degli italiani né la criminalità reale».
A volte anche in modo inatteso, come il fenomeno Gomorra?
«Esatto, se uno non è mai stato a Napoli si è costruito un’immagine della città criminale veicolata dal libro, dal film e dalla serie tv. Mentre invece andare in questa città è un’esperienza bellissima».
Mi colpisce il fatto che il medesimo meccanismo possa riguardare il piano della narrazione romanzesca (seppure ispirata al vero) e quello del reale. Funziona, infatti, allo stesso modo con il tema del terrorismo?
«La percezione che in Italia il terrorismo sia la questione più preoccupante, secondo i dati di Eurobarometro, è aumentata a partire dal 2005 e fino al 2014 (ultimo dato disponibile, ndr). La paura personale invece è molto più bassa e ha avuto un aumento molto contenuto. Le campagne elettorali hanno agito su questa».
Cioè la paura interiorizzata è un strumento nelle mani della politica?
«È un’emozione su cui si può agire per spingere l’adozione di misure straordinarie. Se si ha timore dei migranti o di un attentato lo Stato aumenta i controlli, riduce le garanzie processuali. Compie azioni, insomma, mirate ad aumentare il controllo sulla vita delle persone. E lo fa con la nostra approvazione. Questo è quello che sta avvenendo in tutti i Paesi europei. Si ricorre a stati di emergenza grazie alla diffusione della cultura della paura».
L’ingovernabilità delle paure ci spinge ad accettare un certo affievolimento dei nostri diritti e delle garanzie democratiche, una cultura dell’emergenza e, talora, vere e proprie forme di Stato di polizia?
«In Francia nel 2005, durante la rivolta nelle banlieux, è stato dichiarato lo stato d’emergenza e sono state sospese alcune garanzie costituzionali. In quel caso la polizia francese non ha ecceduto, pur potendolo fare. Però lo stato d’emergenza è stato poi prorogato e, dopo gli attentati terroristici del Bataclan, la polizia come istituzione ha continuato ad agire nella sospensione dei valori costituzionali. Ed è lì che si crea un problema».
Quale?
«Il pericolo è di dare alla polizia poteri che non sono più controbilanciati e ben gestiti. Si rischia di alterare gli equilibri che regolano il rapporto che c’è tra polizia e comunità. C’è sempre lo spauracchio prospettato da Blade Runner con il palazzo della polizia che sovrasta tutto il resto. Si rischia uno Stato di polizia».
A portarci a questo punto sono stati il discorso politico e il racconto mediatico del crimine?
«Il crimine ormai è attrazione, spettacolo. Andando in Toscana ho notato che in ogni città più o meno grande c’è sempre un museo della criminologia, sia esso della tortura o del crimine. Si gioca sulla fascinazione del crimine».
È anche un po’ colpa dei criminologi. Siete diventati le nuove pop star dei salotti televisivi…
«I criminologi seri non vanno a parlare di un crimine appena commesso in un talk show. Oggi si è strutturato un sistema di produzione culturale, anche industriale, che si fonda sull’utilizzo di questi casi per fare audience e costruire format in cui però non interessano i dati”.
Solo un caso di media cattivi o c’è una vera e propria economia del crimine?
«No, i media che funzionano sono la mano di un corpo che è industria e impresa. Penso che si sia strutturato intorno alla mediaticità di episodi criminali un sistema produttivo che ha bisogno di continuo di notizie. Il criminologo in questi format viene quasi umiliato. Sembra esserne al centro, ma in verità si deve sottomettere a ciò che ci si aspetta che dica».
Un po’ un Toro Seduto che si unisce al circo Barnum?
«Sì».
Forse, della paura bisognerebbe parlarne in modo più approfondito, documentato e meno sensazionalistico. Ché a parlarne, con rigore e distacco, fa molto meno paura.
Commenti