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Milano

Il trittico Tjeknavorian apre la primavera musicale milanese

Lo “Stabat” dall'Orchestra e dal Coro sinfonico di Milano il 15 e 17 aprile ha chiuso il trittico con cui il talentuoso violinista/direttore Emmanuel Tjeknavorian ha salutato la primavera meneghina

Di Francesco Bogliari

Il trittico Tjeknavorian apre la primavera musicale milanese

La musica che eleva lo spirito è sempre “sacra”, anche quando è “profana”. È sacra la conversazione tra il corno inglese e il pianoforte nel secondo movimento del Concerto in sol di Ravel; è sacra la pausa che precede il “Contessa perdono” delle “Nozze di Figaro”; è sacra la tromba sporca di Chet Baker in “My Funny Valentine”; è sacro il “Summertime” intonato a due voci da Ella Fitzgerald e Louis Armstrong; è sacro il “Moon River” di Henry Mancini che accompagna Audrey Hepburn sotto la pioggia in “Colazione da Tiffany”; è sacro l'assolo dolente del trombone nel primo movimento della 3^ di Mahler; è sacra la dissoluzione della materia musicale nell'ultimo movimento sia della sonata in si minore di Chopin sia della 6^ di Cjaikovskij. E potrei andare avanti a lungo.

Poi c'è la musica sacra “religiosa” per liturgia: le messe, gli oratori, le passioni, le cantate, i vespri, i mottetti, i Te Deum, i requiem (ah, quelli meravigliosi di Brahms, Fauré, Dvorak, Mozart, Verdi!) ecc.

Lo "Stabat" di Rossini: il sacro si veste di abiti profani e va a teatro

E poi c'è Rossini, che spariglia i giochi rimescolando le carte come un prestigiatore. Perché veste il sacro di abiti profani e lo sposta dalla chiesa al teatro. Come riesce a fare mirabilmente, sconcertando sia gli ascoltatori del suo tempo sia noi contemporanei, nello “Stabat Mater” del 1842, seguito ventidue anni dopo dalla vertigine assoluta della “Petite messe solennelle”.

Lo “Stabat” è stato proposto dall'Orchestra e dal Coro sinfonico di Milano, diretti rispettivamente da Emmanuel Tjeknavorian e Massimo Fiocchi Malaspina, il 15 e 17 aprile. Un'interpretazione intensa, poetica, carica di colori e di dinamica ritmica, drammatica nella sua plateale teatralità: cos'è il “Cujus animam”, primo solo del tenore, se non una grande aria d'opera svettante fino a note sovracute? E così l'Amen finale cantato con sferzante energia dal coro che sembra dire: Dio, sto arrivando, ma arrivo con tutta la mia energia ancora indomita di uomo non placato. Buono ma non eccezionale il quartetto dei solisti (il soprano Benedetta Torre, il mezzosoprano Martina Belli – la migliore dei quattro –, il tenore Jan Francisco Gatell, il basso Nicola Ulivieri), eccellenti l'orchestra e il coro, grande coinvolgimento del pubblico in sala.

Quello con lo “Stabat” rossiniano è stato l'ultimo dei tre appuntamenti con cui il giovane violinista/direttore Emmanuel Tjeknavorian (trent'anni martedì 22 aprile – auguri! – festeggiati con la recente vittoria del Premio Abbiati come miglior direttore del 2024) ha salutato la primavera milanese in quella che da un anno è la sua casa, l'Auditorium di Corso San Gottardo (o, meglio, Largo Mahler).

Tjeknavorian al violino e Sergej Babajan al pianoforte

Il trittico era stato aperto domenica 6 aprile con un concerto da camera per violino e pianoforte, Tjeknavorian al violino e il celebre musicista statunitense di origini armene Sergej Babajan al pianoforte. Programma sofisticato, dove accanto a due delicate sonate mozartiane e alla spettrale e inquieta Sonata di Leos Janacek i due artisti hanno incasellato la magia di alcune miniature di Fritz Kreisler, tra cui l'incantevole “Liebesleid” (poi ripetuto nei bis) che ci hanno trasportato in un cafè di Vienna in pieno Ottocento, senza svenevolezze ma con aristocratico senso della melodia, una melodia sognante e dolcemente  malinconica. Infine la trascinante, impervia “Tzigane” di Ravel, dove le acrobazie virtuosistiche del violino mai hanno tolto poesia e cantabilità a questo brano pieno di passaggi visionari.

Babayan e Tjeknavorian per un programma da far tremare le vene e i polsi

Due giorni dopo Babayan e Tjeknavorian, qui nella veste di direttore, sono tornati sul palco dell'Auditorium per un programma sinfonico da far tremare le vene e i polsi. Nella prima parte i due concerti per pianoforte di Ravel, quello in sol e quello per la mano sinistra, che quasi mai vengono eseguiti nello stessa serata per l'estremo sforzo fisico e interpretativo richiesto al solista. Il concerto in sol è stato affrontato senza mai che il suo virtuosismo supremo diventasse la chiave di lettura principale. Respiro trasparente nel già ricordato duetto tra corno inglese e pianoforte del primo movimento, ritmi jazzistici risolti con elettrica eleganza, spirito per così dire “geometrico” come chiave interpretativa di fondo. Nel concerto in re maggiore per la mano sinistra il tono cupo, disperato dell'opera (che è dolore non solo per il musicista che ha perso l'arto in guerra, ma per la guerra in sé) è stato affrontato con una levità intellettuale ammirevole, facendo emergere fin nei dettagli la complessa struttura sinfonica della partitura.

La "sottrazione" della “Sinfonia degli Addii” di Haydn e l'“addizione” del “Boléro” di Ravel

Nella seconda parte Tjeknavorian ha voluto fare un accostamento curioso: la “sottrazione” della “Sinfonia degli Addii” di Haydn a fronte dell'“addizione” che caratterizza il “Boléro” di Ravel. Verso la fine della sinfonia haydniana gli strumentisti, uno a uno o in gruppi, se ne vanno e invano il direttore cerca di trattenerli; una gag che va fatta bene, altrimenti può diventare una farsa. Ma segno distintivo del giovane direttore austro/armeno è l'eleganza, anche del portamento e dei gesti, quindi  l'ha fatta bene. Infine il “Boléro”, una delle composizioni più celebri, conosciuta anche dal pubblico non specialista: qui è l'addizione che la fa da padrona. Partendo con una frase puramente ritmica di 24 note in 2 battute ripetuta ossessivamente dall'inizio alla fine, con volume crescente, dal tamburo, la melodia di circa 30 secondi (16 battute) viene ripetuta per 18 volte con piccole variazioni, e ogni volta si aggiunge uno strumento o gruppo di strumenti, senza che i precedenti abbandonino. Un crescendo ipnotico e sensuale, che dà l'impressione di essere avvolti lentamente da un enorme serpente che alla fine ci stritola all'acme del piacere. E parafrasando qualcuno, mai morte per soffocamento fu più dolce di questa.

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