Milano

Coronavirus, rivolta carceri: un viaggio tra droga, dipendenza e disperazione

A Milano nella casa circondariale di San Vittore sono stati registrati due casi di overdose mentre una rivolta a Opera sarebbe stata sedata sul nascere

di Francesco Floris per Affaritaliani.it Milano

Le versioni ufficiali fornite dall'amministrazione penitenziaria vertono tutte su un punto. Le rivolte a cascata in tutta Italia (Milano, Roma, Siracusa, Rieti, Foggia, Aversa, Prato, Melfi, Alessandria, Bologna, Reggio Emilia, Modena, Napoli, Salerno, Palermo, Santa Maria Capua Vetere, Frosinone, Cassino, Lecce, Bari, Vercelli, con 12 morti e decine fra evasi e catturati in seguito) sono state motivate dalla necessità di molti detenuti di approvvigionarsi di metadone, assaltando le infermerie e le farmacie interne. C'è anche chi ha voluto malignamente leggere in questa necessità una connessione con la sospensione dei colloqui con familiari o altre persone che condannati, imputati e internati hanno diritto ad avere a causa del coronavirus. Sospensione che avrebbe portato a una “carenza” di sostanze negli istituti. A Milano nella casa circondariale di San Vittore sono stati registrati due casi di overdose mentre una rivolta a Opera sarebbe stata sedata sul nascere. Le foto scattate mostrano sul tetto di San Vittore detenuti stranieri mentre trattano con vigili del fuoco, agenti penitenziari e il procuratore aggiunto di Milano Alberto Nobili.

Ma quali sono i numeri della dipendenza dietro le sbarre e in particolare nella casa circondariale del centro città?  Le statistiche elaborate dall'ufficio innovazione del Tribunale di Milano, su dati della cancelleria, e che si riferiscono alla sezione “Direttissime” che ogni mattina al piano terra del Palazzo di Giustizia nelle aule A1-A2-A3 si occupa degli arresti in flagranza, parlano nel 2018 di 2.251 procedimenti che si sono conclusi con una misura cautelare detentiva in attesa di processo per 2.786 persone (a volte sono presenti più persone per un fascicolo, come nel caso di un furto con “palo”). I reati contestati sono sempre la stessa manciata di illeciti estratti dal codice penale: art. 337, resistenza a pubblico ufficiale; 385, evasione (dai domiciliari); 582, lesioni personali, il 5 per cento dei fascicoli; un 30 per cento è fatto dagli articoli 624 e 625, furto e furto aggravato; 628, rapina. E infine c'è la galassia dei reati connessi alla droga: è l'articolo 73 del Testo unico stupefacenti che punisce chi coltiva, trasforma, trasporta o spaccia droghe. Da solo l'articolo 73 ha costituito il 35,6 per cento del lavoro che magistrati, avvocati, poliziotti e operatori dei servizi sociali hanno dedicato ai nuovi procedimenti chiusi con misura detentiva. In totale 803 fascicoli, dove in un terzo dei casi la persona a processo ha fra i 20 e i 25 anni. E di questi 618, il 76,9 per cento, con indagati stranieri. Numeri crudi che non raccontato però tutta la realtà.

L'esperienza e le storie alla sezione “Direttissime” mostrano plasticamente un altro fatto: chi spaccia, ma anche chi commette piccoli furti, rapine, aggressioni in strada, in molti casi lo fa per procacciarsi a sua volta il denaro con cui comprarsi le dosi e alimentare la propria dipendenza. Per questo a Milano è attivo dal 1995 il Sert Tribunale che si affianca ai Sert di San Vittore, Bollate e Opera e ai progetti di recupero interno al carcere come “La Nave” (San Vittore) e “La Vela” (Opera). È il primo presidio in Italia dedicato alle dipendenze dentro a un Palazzo di Giustizia. A cui sono seguiti quelli di Padova, Roma, Catania, Reggio Calabria (chiusi per mancanza di fondi dopo la sperimentazione) e Genova. È nato all'epoca dalle intuizioni dell'allora Direttore del servizio dipendenze della Asl di Milano, lo psicoterapeuta Dario Foà, con la collaborazione dell'avvocato Vito Malcangi, della giudice Nicoletta Gandus e dell'ex magistrato di sorveglianza Francesco Maisto che oggi è il Garante cittadino dei detenuti. Il Sert Tribunale ogni anno intercetta circa 600 tossicodipendenti o consumatori che sono finiti nei guai con la giustizia. Qui si prova a mettere in pratica quanto previsto dal Testo unico stupefacenti, il Dpr 309/90, vera e propria Bibbia per operatori, psicologi, assistenti sociali del settore. Gli articoli 89, 90 e 94 di quella legge prevedono alternative terapeutiche alla carcerazione, per persone con problemi di dipendenza appena arrestate o condannate. Così quando al mattino gli operatori scendono nelle celle di sicurezza e incontrano arrestati che ammettono di far uso di droghe (un'eventualità meno frequente di quanto ci si aspetti, anche per persone visibilmente in stato di alterazione), parte una filiera: chiamata alla famiglia, telefonata al servizio territoriale e infine breve relazione redatta per il magistrato.

Di quei 600 tossicomani, intercettati una forbice fra i 200 e i 250 ottengono i domiciliari e frequentano il Sert della zona in cui vivono. Chi è più escluso da questo meccanismo sono proprio gli indagati o i condannati stranieri: nel primo caso perché raramente possono indicare un domicilio o una residenza stabile dove essere messi ai domiciliari e seguire un programma terapeutico. Nel caso dei condannati che vengono seguiti dall'Ufficio esecuzione penale esterna che supervisiona la vita di oltre 8 mila detenuti in regione (circa 2.500 su capoluogo e hinterland) perché i posti in comunità terapeutica sono limitati e le strutture accreditate mediamente destinano il 30 per cento degli spazi a chi arriva dal tribunale e dall'area penale per evitare di trasformarsi in succursali del carcere. Anche qui la fotografia è solo sfocata: le domande rivolte dagli operatori in Tribunale a chi si trova nelle celle di sicurezza non sono uguali alle dichiarazioni fornite in fase di matricolazione all'ingresso in un istituto penitenziario. Che a loro volta sono diversi dai questionari interni al carcere o dai dati sulle dipendenze raccolti da personale che in alcune regioni è qualificato, in altre è solo personale sanitario standard “prestato” al mondo penitenziario. Come del resto non esiste solo un grado zero della dipendenza (il non consumatore) e un grado 100 (il tossicodipendente) ma decine di sfumature, come nel caso di chi fa uso saltuario di cocaina e magari in un occasione commette uno o più reati in stato di alterazione. Le overdose verificatesi in questi giorni sono un ulteriore punto interrogativo: l'esperienza dei Sert insegna che il tossicodipendente abituale, seppur in astinenza, conosce i dosaggi talvolta meglio dei medici. Il consumatore saltuario no. A San Vittore la rivolta è partita dal terzo e quinto raggio, secondo la ricostruzione di Business Insider presente sul luogo, ma alla devastazione non è scampata “La Nave”, unanimemente riconosciuto fra i migliori reparti milanesi e d'Italia e resta da capire se gli “interni” abbiano contribuito ai fatti.

La dipendenza in carcere è uno dei problemi più pregnanti dell'intera amministrazione giudiziaria, penitenziaria e dai servizi sociali e sanitari. Che va di pari passo con il diritto alla cura dietro le sbarre, sia dalle dipendenze che da altre patologie, ulteriore fattore che ha spinto le sommosse di questi giorni nella convinzione di essere stati abbandonati dallo Stato di fronte al rischio Coronavirus. Il 3 e 4 ottobre 2019, alla Asst Santi Paolo e Carlo, azienda sanitaria che gestisce metà dei Sert cittadini e tutta la sanità penitenziaria con un budget annuale di 50 milioni di euro, si è tenuto il congresso nazionale della Società Italiana di Sanità Penitenziaria (Simspe) con ospiti come il vice capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap), Lina Di Domenico, e la Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano, Giovanna Di Rosa. “C'è da chiarire un equivoco ideologico prima di qualunque ragionamento – ha detto in apertura il Garante dei detenuti Francesco Maisto –. C'è chi pensa che in carcere si debba essere curati meglio che all'esterno, proprio per le privazioni già presenti. Chi dice che i trattamenti devono essere identici in termini di efficacia rispetto alle persone libere. E chi invece è convinto che l'aver commesso reati ed essere stati privati della libertà personale non sia abbastanza e che l'assenza o la carenza di cure siano come delle pene accessorie ulteriore, meritate”. “Noi magistrati di sorveglianza siamo obbligati a scarcerare per permettere alle persone di curarsi e se devo scegliere continuerò a farlo” ha detto Giovanna Di Rosa in un confronto faccia a faccia con gli operatori di sanità penitenziaria. Sanità penitenziaria che, secondo le parole del Direttore Generale dell'Asst, Matteo Stocco, vive carenze di personale drammatiche, con concorsi che vanno deserti e che dovrebbe essere incentivata con contratti di lavoro migliorativi. In queste ore la Presidente del Tribunale di Sorveglianza ha parlato di “intese con i Sert per potenziare gli affidamenti terapeutici e per potenziare le misure alternative anche con un tavolo che si è costituito con le direzioni degli istituti, il Provveditorato regionale e Regione Lombardia” per “liberare” le carceri “il più possibile”. Ma anche qui ci sono contraddizioni: i Sert sono presidi di cura che pur avendo funzioni di controllo sociale, peraltro crescenti negli anni a detta degli stessi addetti ai lavoro, non possono essere intesi o sostituirsi alla detenzione.








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