Elezioni 2018: Renzi, porte chiuse a Palazzo Chigi
Ripartire dalla "linea del Piave" del 4 marzo?
A due settimane dal voto del 4 marzo l'unica certezza è che Matteo Renzi non avrà alcuna chance di ritornare, almeno nel breve periodo, a Palazzo Chigi. Se il centrodestra vince fa il "suo" governo e Renzi rimane con le pive nel sacco. Se non vince nessuno, per evitare il caos, la via obbligata è quella della "Grosse grosse koalition" (copyright Brunetta) con tutto il pimpante centrodestra a fare la voce grossa e la ciliegina sulla torta: "Il premier sarà dei nostri" già avverte, minaccioso, Berlusconi. In questo più che probabile scenario, la giostra torna in mano a Berlusconi che così detta la sua rinnovata linea fantasmagorica al governo, imbriglia le velleità di Salvini e della destra, spunta le ali al Pd ridotto a soprammobile, isola il M5S chiuso a pestare l'acqua nel suo mortaio, lascia la sinistra harakiri a rimirarsi nei sogni del Sol dell'avvenire. Comunque vada, non sarà più il centrosinistra a dare le carte e il Partito democratico non avrà più il ruolo di baricentro nelle future alleanze di governo. Così Renzi sarà costretto a giocare di rimessa, a toni bassi, nell'angolo. Addirittura, se l'annunciata sconfitta del Pd dovesse trasformarsi in una debacle sul crinale del 20-22% dei voti, per l'ex premier sarebbe a rischio anche la stessa segreteria del partito. Dagli altari alla polvere in quattro anni. Cosa è accaduto in questo lasso di tempo di crisi e turbolenze internazionali perché oggi il quadro indichi un tale stravolgimento? In una parola il Partito democratico è in piena crisi identitaria e di legittimazione, ha fallito nella mission di nuovo "partito di governo e di lotta": è mancato il suo ruolo propulsivo riformatore negli ultimi governi di centrosinistra incapace di fermare la forbice delle disuguaglianze e di interpretare sfiducia, malcontento, tensioni crescenti nel Paese. Invece di contrastarle sul piano dei fatti con inequivocabili e innovative scelte di governo, il Pd ha mimato i populismi e le spinte demagogiche contrapposte dei grillini e della destra e della sinistra estreme.
Emblematica del proprio status confusionale è la strategia dissennata e folle del Pd (e dei sui governi) sul nodo immigrazione, spada di Damocle sul piano elettorale, bomba ad orologeria sul piano sociale. Idem per il Rosatellum, pensato per mettere fuori gioco il M5S e fare il pieno di voti e di seggi, ridottosi a boomerang per il Pd. Adesso, in una decina di giorni poco più, un partito male in arnese, indeciso sulla rotta, e con la sindrome della sconfitta annunciata qual è oggi il Partito democratico, non è in grado di dare un colpo d'ala capace di riprendere quota e recuperare voti. Dopo il 4 marzo tutti i nodi verranno al pettine. E' l'ora di buttare la maschera e uscire dall'ambiguità. Il Partito democratico nato dalla fusione a freddo fra gli ex Pci e una parte di ex DC, non c'è più. La iniziale amalgama mal riuscita si è scollata definitivamente essendo oramai fuori (per rottamazione o per scissione) il vero gruppo dirigente di ex comunisti con il Pd in mano a ex democristiani di cui lo stesso Renzi è espressione. Paradossalmente, pure nei suoi pasticciati zig-zag di una cultura liberal sul piano politico e neoliberista su quello economico e di eccessi di boria personalistici, ha vinto Renzi: la sua furia rottamatrice ha spazzato via la sinistra storica comunista (ritenuta zavorra di cui liberarsi) e chi la rappresentava ancora nello stesso Pd. Una operazione mal gestita da Renzi-Dux e dal suo "Giglio magico", però storicamente rilevante perchè mai riuscita a nessuno, né a Craxi (da sinistra) né a Berlusconi (da destra). Ciò ha prodotto divisioni e scissioni e comporta nell'immediato perdita di consensi elettorali ma può anche generare le premesse di un nuovo rilancio, né facile né a breve termine. Dopo il 4 marzo, tocca a Renzi, se non viene disarcionato, ripartire dalla "linea del Piave", assumersi le responsabilità della sconfitta delle urne individuandone i limiti e gli errori commessi e indicando una nuova strategia e un nuovo progetto politico a medio e lungo periodo. Una cosa è certa: il Partito democratico - o come si chiamerà dopo un congresso che si imporrà dopo le elezioni - non c'è più. E non c'è più quel Partito democratico di sinistra che illuse i nostalgici di una politica e di un mondo irrimediabilmente scomparsi. Quel partito è stato un "gigante dai piedi d'argilla". Per le nuove sfide di oggi serve ben altro. Quel 20% e passa che voterà il 4 marzo per il Pd è un patrimonio che va oltre i confini di un singolo partito, un patrimonio democratico da non disperdere.