Palazzi & potere

DOPO L'ITALEXIT: I PRO ED I CONTRO DI UNA (NUOVA) LIRA DEBOLE

L'analisi di Marcello Minenna per Affaritaliani

Italexit, settembre 1992: si esce dallo SME. Esaminare cosa è successo a confronto con la Germania, nostro primo competitor, aiuta a valutare un nuovo Italexit questa volta dall’Eurozona.

 

Lo SME aveva portato un’italianizzazione del tasso di cambio reale del marco, cioè una perdita di valore che rilanciò il surplus commerciale tedesco al netto dell’effetto-riunificazione. Per l’Italia, invece, il rispetto della banda imponeva un cambio sopravvalutato da difendere con alti tassi di interesse al costo di una maggiore spesa per il servizio del debito.

 

La rottura dello SME ribaltò il quadro. La Germania si ritrovò con una moneta rivalutata che ne mise in tensione i saldi commerciali in un contesto di crescita debole e aumento dei tassi di interesse. L’Italia fu inizialmente compressa tra il rischio di default sul debito pubblico e lo spettro di un’inflazione a due cifre. Aspetti che furono tenuti sotto controllo con la mega-manovra del ’92 e le misure di moderazione salariale del Governo a scapito della domanda interna. Già dal ’94 però la svalutazione della lira favorì il rilancio dell’export e della produzione industriale: il PIL crebbe di oltre il 2% e l’equilibrio tra grandezze monetario-finanziarie e reali fu ripristinato.

 

L’avvento dell’euro riavvia l’italianizzazione del cambio reale del marco che questa volta, essendoci un’unica valuta in gioco, si abbina alla germanizzazione dei tassi di interesse italiani. I vantaggi di competitività per l’industria tedesca sono in qualche modo controbilanciati dai vantaggi di finanza pubblica per l’Italia.

 

2008: arriva la crisi e questo equilibrio salta. Si amplifica il vantaggio competitivo cumulato della Germania che nel 2016 supera il 30% – come emerge dall’esame del tasso di cambio reale rettificato per lo spread (tasso di cambio reale finanziario) – e scompaiono i benefici sui conti pubblici per l’Italia.

 

Oggi lo spread in termini reali è prossimo ai massimi del 2011 (l’annus horribilis) e sul Forex la svalutazione dell’euro indotta dal QE ha favorito lo shift dell’export tedesco al di fuori dell’Eurozona; anche perché (complice l’austerità) era stata esaurita la domanda proveniente dai Paesi limitrofi.

 

L’Italia è alle prese con un elevatissimo debito pubblico, un sistema bancario e produttivo in difficoltà, il credit crunch e da riforme dai chiari effetti pro-ciclici.

 

Con l’Italexit e l’inevitabile rottura dell’euro ad un’iniziale parità tra lire e marchi seguirebbe una rapida svalutazione. Numerosi gli indizi in tal senso: la fuga di capitali (oltre 200 miliardi) dall’Italia verso il Nord-Europa, i tassi negativi sul debito tedesco che esprimono l’aspettativa di un possibile rimborso del debito in una moneta rivalutata e lo spread reale sul debito italiano che esprime invece l’aspettativa di un possibile rimborso del debito in una valuta più debole.

 

Tenendo conto dei recovery sui derivati di credito e del valore del tasso di cambio reale finanziario, la svalutazione della lira potrebbe superare il 40% specie nella turbolenta fase iniziale che richiederebbe controlli sui capitali e la nazionalizzazione delle banche più esposte.

 

Il nuovo valore di equilibrio della lira dipenderebbe da molteplici fattori in uno scenario globale molto diverso dal ‘92 in cui si devono fare i conti con la globalizzazione, i Paesi emergenti e le nuove istanze protezionistiche.

 

Per tali motivi prevedere vantaggi e svantaggi della svalutazione è necessariamente un esercizio speculativo, ma comunque un what-if informato e realistico è utile.

 

Un primo vantaggio potrebbe essere il guadagno netto di competitività dell’industria rispetto a quelle dei Paesi vicini (Germania in primis). Infatti, tralasciando l’effetto-prezzo negativo di breve periodo dovuto al maggior costo dell’import, una volta terminato l’adeguamento delle quantità è ragionevole attendersi un incremento dell’export e un miglioramento dei saldi commerciali (J-curve). Resta fermo che un simile vantaggio si concretizzerebbe a patto di ripristinare rapidamente un tessuto produttivo logorato e re-internalizzare la catena del valore dell’output industriale in modo da circoscrivere le importazioni ai beni su cui manca qualsiasi vantaggio competitivo.

 

Difficilmente si potrebbe fare senza politiche fiscali espansive che privilegino gli investimenti pubblici, unitamente ad agevolazioni fiscali, stimoli positivi per il mercato del lavoro e altre misure anche a supporto della domanda interna per contrastare l’effetto depressivo dovuto all’aumento dell’inflazione che sarebbe inevitabile specie nel breve.

 

La lira debole avrebbe notevoli impatti anche sulla gestione del debito pubblico offrendo un beneficio sulla porzione ridenominabile e un costo su quella che invece resterebbe in euro. Oltre all’entità e alla durata della svalutazione, il beneficio netto sarebbe direttamente proporzionale alla quota di debito tramutata in lire fermo restando che l’haircut sui titoli di Stato ridenominati equivarrebbe a un default, compromettendo l’accesso ai mercati dei capitali per il rifinanziamento del debito. Per minimizzare il rischio di un isolamento come quello sperimentato dall’Argentina nel 2002, sarebbe opportuno procedere con un default selettivo, tenuto conto che sui titoli di Stato emessi dal 2013 ci sono ostacoli alla ridenominazione che sic stantibus rebus potrebbero rendere problematica sul piano legale e reputazionale l’applicazione della lex monetae a circa metà del debito pubblico.

 

Dati questi elementi, Italexit vorrebbe quindi anche dire prepararsi all’evento attraverso un percorso operativo finalizzato a massimizzare la quota di debito ridenominabile e gestire al meglio i rischi nell’interazione con i mercati avendo a disposizione strumenti come: la disponibilità di Bankitalia per garantire la copertura delle aste; la rimodulazione del portafoglio di titoli di Stato detenuti da Bankitalia - opportunamente selezionati per data di emissione e partecipazione in ciascuna emissione - tali da portare a 2/3 la quota di debito ridenominabile; l’affiancamento della ridenominazione ad uno swap sul debito tale da trasformarlo in perpetuo.

 

Simili interventi aumenterebbero il beneficio della svalutazione sul fardello del debito, ma al prezzo di una maggiore inflazione e di un abbattimento della ricchezza finanziaria dei residenti: una sorta di patrimoniale proporzionale alla svalutazione del cambio.

 

Detta così può spaventare. Tuttavia, l’impatto dell’inflazione può essere gestito secondo logiche redistributive e interventi mirati a protezione delle categorie più deboli. In più, quali sono le alternative sul tavolo? In questi giorni il Governo sta finalizzando l’ennesima manovra extra imposta da Bruxelles, l’aumento dell’IVA rimane dietro l’angolo e fioccano le proposte di ristrutturazione del debito.

 

Tradotto: finora le riforme che ci ha chiesto l’Europa hanno aiutato poco a risanare i conti e hanno avuto effetti paragonabili a quelli di mini-patrimoniali deprimendo consumi e investimenti e riducendo il gettito. Né questo ci immunizza dal pericolo di una vera patrimoniale imposta da un’Eurozona che sta operando a rischi segregati e che non dà segni di inversione della rotta verso il risk-sharing. Macron, il nuovo player nella scacchiera dell’Euroburocrazia, si è aggiunto alla lista dei contrari agli Eurobond. Scenari complessi, solo parzialmente prevedibili che, dentro o fuori l’euro, richiederanno mano ferma e grande professionalità da parte della nostra futura classe dirigente.

Marcello Minenna