Palazzi & potere
Matteo Renzi, le trivelle e le 50 sfumature del dire
La politica, e la vita, ci hanno insegnato che per dire non c’è bisogno di dire. Ci sono sguardi e silenzi tremendamente eloquenti. E ci sono anche parole che dicono una cosa ma ne intendono un’altra. Tutti noi siamo perfettamente bilingui: siamo in grado di comprendere il testo e il sottotesto, l’ufficiale e l’ufficioso, l’esplicito e l’implicito. Il discorso di Matteo Renzi, in occasione del referendum sulle trivelle, è stato un abile gioco di sfumature.
La sera del 17 aprile il premier era visibilmente soddisfatto per la mancanza del raggiungimento del quorum, ma non sarebbe stato opportuno gongolare, salutando i votanti con un #ciaone, come ha pensato di fare su Twitter il membro della segreteria del Pd Ernesto Carbone.
Renzi ha tentato di allontanare da sé la consueta spavalderia (anche se a tratti è tracimata incontenibile), attribuendo ai lavoratori quello che, dal suo punto vista, era un risultato decisamente positivo.
“Il governo non si annovera nella categoria dei vincitori. Credo che i vincitori siano gli operai, gli ingegneri, i lavoratori che, domani mattina, torneranno nelle loro piattaforme, nelle loro aziende consapevoli di avere un futuro e non soltanto un passato. Levo simbolicamente i calici con loro, con le 11 mila persone che avrebbero rischiato il posto di lavoro, per i quali abbiamo lavorato e proposto l’astensione ai cittadini.”
La conservazione del posto di lavoro è un’argomentazione che funziona sempre. Il “posto”, in un Paese con livelli record di disoccupazione, è sacro, non si tocca.
Ma l’incipit, l’attacco, del discorso aveva già affondato il colpo nel fianco dei quelli che Renzi chiama “gufi” e “rosiconi” e che, per l’occasione, vengono diplomaticamente citati come “commentatori” e “opinionisti”: “L’Italia ha parlato. Questo referendum è stato respinto. Un risultato netto, chiaro, superiore alla previsioni di tutti i commentatori e di tutti gli opinionisti.”
Il premier incornicia le frasi con pause, per dare loro maggiore risonanza. I silenzi, gli oratori esperti lo sanno, sono capaci di produrre un’eco. Nelle pause, il premier fa una smorfia portando in dentro il labbro superiore, una sorta di broncio che non esprime però disappunto ma, al contrario, soddisfazione per ciò che lui stesso sta dicendo.
Poi parte un classico dell’oratoria renziana: l’esempio, il caso, la storia di uno nel quale possono identificarsi i molti. “Ho ricevuto un’e-mail da parte di un ragazzo che ha compiuto 18 anni la settimana scorsa […] che mi chiedeva un consiglio – e io alla fine a lui non glie l’ho dato - che mi chiedeva un consiglio sull’andare a votare o meno, perché aveva l’emozione, provava il brivido di votare per la prima volta.” L’aneddoto serve a comunicare la difficoltà della scelta di aver consigliato l’arma a doppio taglio dell’astensione, soprattutto in vista del prossimo banco di prova: il referendum sulla riforma della Costituzione.
La contrapposizione estrema è un terreno impervio e Renzi cerca di ricucire lo strappo, usando l’immagine del tutti insieme appassionatamente. Addirittura “per mano”.
“Noi vogliamo tutti insieme, prendendoci per mano, dopo la divisione del referendum, fare dell’Italia il Paese più verde d’Europa.”
Segue un altro classico dell’oratoria: la voluta banalizzazione della dicotomia, una sorta di gioco delle coppie che ha l’obiettivo di delegittimare l’avversario. Funziona così: non puoi sostenere B se non hai fatto A. Non puoi demonizzare “qualche piattaforma” se non hai realizzato i depuratori; non puoi essere un no-triv se non hai impiegato i fondi europei per ripulire il mare.
“…a qualche Regione che ci ha fatto la morale sulla bellezza del mare diciamo con chiarezza che è falso e ipocrita difendere il mare, o dire di farlo, mettendo in difficoltà qualche piattaforma che estrae gas naturale, quando per troppi anni quelle Regioni […] non hanno aiutato a realizzare quei depuratori che sono condizione necessaria […] perché tutto il Paese abbia il mare pulito”.
Ancora:
“Come si fa a parlare di mare quando troppe Regioni non utilizzano i soldi europei […] per poter pulire le nostre meravigliose acque.”
Il gioco delle coppie non finisce qui, nell’abbinata rientrano anche i fondi spesi per la realizzazione del referendum.
“È stato inutile buttare via oltre 300 milioni di euro […] quando alle Regioni viene chiesto soprattutto di ridurre le liste di attesa sulla sanità; quando con oltre 300 milioni di euro avremmo potuto acquistare 350 nuove carrozze per il trasporto pendolare”. L’argomentazione è affascinante. Difficile sapere, dopo, se quei soldi sarebbero stati effettivamente usati in quel modo.
Nel discorso non manca un attacco ai “grandi esperti” che “preconizzavano spallate”, ai protagonisti della fiera delle vanità della tv e dei social network.
“Vivono su Twitter o su Facebook, ma l’Italia è molto più grande di Twitter e di Facebook. L’Italia è molto più grande dei talk show che costantemente riferiscono il racconto di addetti ai lavori.” È interessante assistere a una critica ai social media da parte di un premier che ne ha fatto uno dei suoi cavalli di battaglia. Ma l’oratoria ha le sue strategie, alzi la mano chi non ne se ne è mai servito, non solo nella vita pubblica, ma anche sul lavoro o in famiglia. Sarà poi ognuno di noi a decidere quanto l’oratore possa essere giudicato credibile.
Flavia Trupia
* E' presidente di PerLaRe-Associazione Per La Retorica