Palazzi & potere

Rai, Anzaldi: le deroghe al tetto stipendi per una casta di intoccabili

Il Dem Michele Anzaldi risponde a Nicola Porro dalle pagine di Affaritaliani

Secondo Nicola Porro la decisione del Governo Renzi di imporre un tetto da 240mila euro agli stipendi pubblici è stato un errore, in particolare nel momento in cui questo tetto è stato esteso anche alla Rai.
 
Il vice direttore del “Giornale” e conduttore Mediaset ha presentato un ragionamento articolato nella sua consueta “Zuppa di Porro”. Opinione rispettabile e da ascoltare, ma stavolta è difficile dire che si tratti di un virus in grado di contagiare le idee, per riprendere il titolo della sua trasmissione in Rai.
 
E’ vero che la Rai raccoglie anche una quota di pubblicità e in parte sta sul mercato, ma questa quota è inferiore a un terzo dei ricavi totali, che per quasi 2 miliardi si reggono sul canone pagato dai cittadini.
 
Lavorare per la tv pubblica non può essere equiparato al lavoro per qualsiasi altra azienda della concorrenza. Negli Usa gli stipendi di chi lavora alla Casa Bianca sono nettamente inferiori a quelli di chi sta nel privato. I conduttori, i giornalisti, i registi, i collaboratori Rai non sono come i calciatori, non vengono pagati da società private che possono disporre come vogliono dei soldi dei loro soci.
 
Sono conduttori, giornalisti, registi e collaboratori della tv pubblica, tenuti al rispetto di alcune regole proprie del servizio pubblico ma anche beneficiari della possibilità di lavorare nella prima industria culturale del Paese, pagata con il soldi degli italiani.
 
Chi lavora in Rai, peraltro, sa bene che non corre rischi professionali come nel privato: basta vedere il destino proprio in queste settimane dei dipendenti Sky e Mediaset di Roma. C’è veramente bisogno di guadagnare 2 milioni di euro di cachet, più i costi di produzione per la propria società esterna e la percentuale prevista per il proprio agente, per proporre ai telespettatori un prodotto di qualità?
 
Ecco perché l’escamotage che sarebbe stato escogitato dal nuovo direttore generale della Rai, votato in Cda dalla presidente e da tutti i consiglieri, è in realtà semplicemente la decisione di disattendere una legge approvata dal parlamento.
 
E ad essere disattesa è anche la comunicazione del sottosegretario allo Sviluppo economico, Antonello Giacomelli, nonché la lettera dell’Avvocatura dello Stato. Non è stato individuato alcun criterio specifico per una valutazione caso per caso di chi supera il tetto, ma è stato deciso di applicare uno sconto lineare del 10% a tutti, meritevoli o meno di un contratto superiore a tutti gli altri loro colleghi che rispettano il limite da 240mila euro. L’Avvocatura, inoltre, ha parlato di deroghe per prestazioni che abbiano “effettivamente natura artistica”, quindi nulla a che vedere con le prestazioni di tipo giornalistico che devono tutte rientrare nel tetto.
 
Ecco quindi che avremo il paradosso di direttori di rete, direttori dei telegiornali, fino al direttore generale, tenuti al rispetto del tetto da 240mila euro, mentre una casta di intoccabili, beneficiata dalle diverse stratificazioni Rai degli ultimi anni, può continuare a godersi il suo super stipendio.